martedì 23 settembre 2008

Saviano, lettera a Gomorra



I RESPONSABILI hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un'anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d'Europa. Se la racconteranno così.

Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pietro Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all'impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all'improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle.

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com'è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l'amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così"?

Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient'altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull'anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

PER VISUALIZZARE IL RESTO DELLA LETTERA CLICCA QUI.

di ROBERTO SAVIANO tratto da repubblica.it

martedì 16 settembre 2008

LEZIONI SUL VALORE (RELATIVO???) DELLA COERENZA _ nuova puntata!!!

«Come donna impegnata in politica e nelle istituzioni, la prostituzione mi fa rabbrividire - ha aggiunto il ministro -. Mi fa orrore, non comprendo chi vende il proprio corpo. Ma mi rendo conto che è fenomeno che esiste e che purtroppo non può essere debellato, come la droga»

ministro per le Pari opportunità Mara Carfagna

tratto da corriere.it

venerdì 12 settembre 2008

I SIGNORI DELLE AUTOSTRADE






Anticipiamo alcuni brani del libro di Giorgio Ragazzi "I signori della Autostrade", che esce oggi per il Mulino (206 pagine, 18 euro). Perché le concessionarie autostradali registrano da tempo profitti molto elevati? Per spiegarlo, il volume ripercorre la storia del settore. Il capitale investito della maggior parte delle concessionarie era già stato ammortizzato e remunerato alla fine degli anni Novanta e i pedaggi avrebbero potuto essere drasticamente ridotti. Il ruolo delle società pubbliche. E un sistema tariffario ben lontano dal modello regolatorio del price cap.



Di Pietro, appena assunta la carica di ministro, parlando delle concessionarie ha dichiarato: “la cuccagna è finita”, anche se poi non pare sia riuscito nel suo intento. Il settore registra da tempo profitti molto elevati. Per citare solo i casi più rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte il valore del suo investimento. (…) L’imprenditore Gavio, entrato nel settore meno di dieci anni addietro con un piccolissimo investimento controlla oggi un “impero” che vale quattro miliardi.
Per cercare di capirne i motivi abbiamo ripercorso la storia del settore dalle origini ad oggi. Poiché le concessionarie erano prevalentemente pubbliche, dell’Iri o di enti locali, ministri e Anas sono sempre stati molto benevoli nei loro confronti (alle spalle degli utenti). Già le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 erano state una fonte di grandi profitti per le concessionarie; senza quelle rivalutazioni, nella maggior parte dei casi le autostrade sarebbero già state interamente ammortizzate alla fine degli anni ’90. La privatizzazione di Autostrade ha poi innescato una vera “cuccagna” e ne hanno beneficiato anche gli azionisti privati. Èl’obiettivo di massimizzarne il valore che ha indotto alla proroga generalizzata delle concessioni alla fine degli anni ’90 e all’introduzione di un price cap particolarmente favorevole per le concessionarie, per non parlare delle clausole privilegiate inserite nella convenzione della Autostrade.
Non esiste nessun settore dove un governo, o addirittura solo un ministro, possa fare “regali” così imponenti a società (pubbliche o private) mediante la proroga della concessione e la regolazione delle tariffe, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali.

LE RIVALUTAZIONI MONETARIE


Se si fosse seguito negli anni il modello teorico della concessione, secondo il quale gli introiti tariffari dovrebbero consentire al concessionario di ottenere una “congrua” remunerazione e di ammortizzare nel tempo il capitale investito sino ad azzerarlo allo scadere della convenzione, le convenzioni di moltissime concessionarie avrebbero dovuto essere scadute già da molto tempo, per avvenuto integrale rimborso del capitale investito.
Una delle ragioni per cui questo non è avvenuto sono le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le concessionarie hanno enormemente “gonfiato”, nei loro bilanci, il valore contabile dei beni gratuitamente devolvibili (cioè il capitale investito nell’autostrada).
Gli investimenti erano stati finanziati pressoché interamente a debito, da tutte le concessionarie. A fine 1975 le 21 concessionarie avevano un capitale proprio (equity) di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100 miliardi di investimenti (…).
A fronte delle rivalutazioni dell’attivo (beni gratuitamente devolvibili) le concessionarie hanno iscritto al passivo riserve monetarie che hanno aumentato enormemente il valore contabile del loro patrimonio. Hanno poi ottenuto che questi maggiori valori venissero considerati “capitale investito”, da remunerarsi in tariffa e da rimborsarsi entro la scadenza della concessione (…). Ad esempio, il capitale sociale dell’Autostrada del Brennero ammontava nel 1997 a 107,4 miliardi di lire, ma di questi ben 104,5 miliardi derivavano dalla rivalutazione monetaria effettuata in base alla legge 72/1983: il capitale proprio sottoscritto dagli azionisti è stato davvero minimo, mentre oggi il patrimonio della società ammonta a ben 310 milioni di euro. Lo stesso può dirsi per molte altre (…).
Il capitale investito della maggior parte delle concessionarie era già stato ampiamente ammortizzato e remunerato, tra la metà e la fine degli anni ’90. Le tariffe avrebbero quindi potuto essere drasticamente ridotte (o gli “extraprofitti” girati allo Stato come era previsto dalla legislazione degli anni ’60). Al termine delle concessioni i beni avrebbero dovuto essere devoluti gratuitamente allo Stato. Le concessionarie sono invece risorte a nuova vita con la proroga generalizzata delle convenzioni nel 1999-2000 (vedasi paragrafo 2.7). Il nuovo sistema tariffario (price cap) è partito poi stabilendo norme per gli incrementi di tariffa, ma accettando per buoni i livelli tariffari esistenti, senza verifica della loro congruità rispetto al capitale netto investito residuo di ciascuna (paragrafo 2.6).
Altre rivalutazioni monetarie sono state effettuate da molte concessionarie nei primi anni 2000 (…). L’Anas, in occasione del rinnovo della concessione alla Satap A4 (Torino-Milano), ha accettato di calcolare il capitale investito sulla base dei valori rivalutati a bilancio (…). Se la rivalutazione viene equiparata a un incremento del capitale netto investito, il maggior valore deve essere poi “rimborsato” alla società entro la scadenza della concessione, e remunerato nel frattempo, con corrispondenti incrementi di tariffa. Questa è una richiesta del tutto ingiustificata, non solo perché le rivalutazioni sono facoltative e non obbligatorie ma soprattutto per la logica sottostante. La maggior valutazione dell’autostrada (o del ramo d’azienda cui è intestata la concessione) si giustifica solo perché produce “extraprofitti”, cioè profitti molto superiori a quanto sarebbe “congruo” rispetto ai valori storici. Il maggior valore viene stimato attualizzando questi “extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce alla società il diritto a vedersi “rimborsare” (e remunerare) il maggior valore per il solo fatto di averlo iscritto a bilancio, in pratica si raddoppiano gli extraprofitti: oltre a pagarli come flusso si pagano anche per il loro valore attuale!

UN GIUDIZIO COMPLESSIVO

Il sistema tariffario italiano è chiamato price cap ma in realtà è ben lontano dall’applicare tale modello regolatorio (Coco & Ponti 2006). Mentre si regolano le variazioni delle tariffe non si è proceduto a determinare i livelli congrui delle tariffe iniziali sulla base dei capitali netti residui di ciascuna commissionaria; non si specifica che l’obiettivo della regolamentazione sia quello di pervenire a una remunerazione “congrua” del capitale netto investito (Rab – Regulated Asset Basis), né che si debba riportare la redditività al livello “congruo” alla fine di ogni quinquennio (“claw back” dei profitti), aspetto che è invece la caratteristica essenziale della regolamentazione tramite price cap. Attribuire poi il “rischio traffico” ai concessionari non introduce alcun incentivo all’efficienza ma si è solo rivelato una fonte di “extraprofitti” per le prudentissime previsioni inserite nei piani finanziari.
E’ evidente che la nuova regolamentazione tariffaria è stata pensata principalmente, se non esclusivamente, al fine di massimizzare il ricavo della privatizzazione di Autostrade. A tal fine, non era certo opportuno indicare né un “tetto” alla remunerazione “congrua” sul capitale investito, né come si dovesse determinare il capitale netto investito (Rab). Con la convenzione del ’97 sono state d’altronde concesse alla sola Autostrade anche due clausole di particolare favore: il recupero dell’inflazione (negato alle altre concessionarie) e la limitazione della X al massimo pari all’incremento del traffico nel quinquennio precedente.
La “formula” ha lasciato nel vago i criteri per la determinazione del parametro X aprendo la porta a un elevato grado di arbitrarietà e a “mercanteggiamenti” periodici tra l’Anas e le singole concessionarie. La remunerazione per la qualità, che non trova riscontro né in Francia né in Spagna, appare “fantasiosa” e genera incrementi tariffari che non hanno alcun riscontro nei costi sostenuti per ottenere i miglioramenti qualitativi; anche questa clausola sembra pensata soprattutto per incrementare i ricavi prospettici delle concessionarie ed in particolare di Autostrade.
Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’efficienza di costo, al di là dell’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente (e i costi delle nostre concessionarie sembrano molto maggiori di quelli francesi, vedasi paragrafo 3.3). Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo successivo) e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale investito largamente eccedenti non solo rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche rispetto agli stessi generosi livelli previsti nei piani finanziari.

UN VENTENNIO DI “CUCCAGNA”


Tentiamo qui una sintesi di quanto precede, e il termine “cuccagna”, usato dal ministro Di Pietro, sembra il più appropriato per indicare ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio.
La costruzione della rete autostradale italiana è stata finanziata pressoché interamente a debito grazie anche alla garanzia con la quale lo Stato assicurava i debiti delle concessionarie perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi tutte erano considerate “pubbliche”. Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione. I pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento. La legge 463 del 1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei ricavi oltre una contenuta remunerazione del capitale investito venisse devoluta allo Stato; questo principio veniva ribadito e rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed in leggi successive, sino al 1993.
Finito il grosso degli investimenti a metà anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90 per avvenuto integrale recupero del capitale investito (…). Ma quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade (definita al tempo la “gallina dalle uova d’oro” dell’Iri). Il resto della rete, con la sola eccezione della Torino-Milano, era di proprietà di province e comuni e quindi anch’essa “pubblica”. E’ questo che spiega o giustifica l’incredibile generosità dello Stato-regolatore, che proroga “gratuitamente” concessioni in scadenza, mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta l’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni monetarie.
Per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade la sua convenzione viene prorogata (in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può esimersi dal concedere generose proroghe anche alle altre concessionarie allora considerate “pubbliche”, anche se oggi si definiscono “private” e vantano i loro diritti contrattuali dimenticando tutti i “regali” ricevuti in passato proprio in quanto possedute da province e comuni. Ancora per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade viene introdotta la “formula” di revisione tariffaria detta price cap che “regala” ad ogni concessionaria il “diritto” di mantenere il livello tariffario del 1999 e accrescerlo secondo la “formula” sino alla scadenza della concessione, senza alcun riferimento a quale fosse nel 1999 il capitale netto residuo da ammortizzare. La fortuna di Gavio è di essere entrato nel settore poco prima del “banchetto” offerto dallo Stato (alle spalle degli utenti) per far incassare all’Iri più soldi possibile.
Insomma, a parte il caso Autostrade, per l’acquisto della quale gli azionisti hanno versato dei soldi veri (tanti o pochi…), quasi tutte le altre concessionarie hanno da tempo più che largamente recuperato e remunerato il (modestissimo) capitale originariamente versato dagli azionisti e i diritti che oggi accampano riflettono essenzialmente “regali” ricevuti a più riprese dallo Stato, nell’ultimo ventennio.
Basta dare un’occhiata ai bilanci delle concessionarie italiane per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione degli interessi e di ogni altra possibile spesa (vedasi il capitolo 5). Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati. Si potrebbe anche applicare la tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare per l’assegnazione delle concessioni con questa logica non sono mai state fatte, né le concessionarie hanno mai pagato il “biglietto” per questa scommessa. Manca dunque un’origine storica per la legittimità dei diritti che oggi esse accampano.
Quasi tutte le concessionarie, avendo rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono trovate, già a partire dagli anni ’90, con flussi di cassa rilevanti e stabilmente crescenti che non avevano opportunità di impiegare nella costruzione di nuove autostrade (…). Le concessionarie “parapubbliche” (controllate da enti locali) hanno investito questa liquidità in strumenti finanziari e diversificando gli investimenti in altri settori (…). Gavio ha invece usato questi ampi flussi di cassa per accrescere la propria quota nel capitale delle partecipate e soprattutto per acquisire altre partecipazioni nel settore; egli ha costruito il suo “impero” con un impegno iniziale minimo di capitale, e ha acquistato in pochi anni tutte le partecipazioni facendo leva sui flussi di cassa delle società stesse (vedasi paragrafo 5.1).
Analogamente, Schemaventotto (la società che controlla Autostrade), tramite l’Opa e il “progetto mediterraneo” (paragrafo 4.7) ha accresciuto la propria quota di Autostrade spa dal 30 al 63 per cento, addossando alla concessionaria (e quindi agli utenti che pagano i pedaggi) l’onere del rimborso del debito contratto per finanziare l’Opa. Schemaventotto ha poi mantenuto il 51 per cento e ha rivenduto il 12 per cento rientrando così in buona parte dei soldi versati all’Iri per il 30 per cento acquistato al momento della privatizzazione.

di Giorgio Ragazzi 12.09.2008 tratto da lavoce.info

giovedì 11 settembre 2008

11 SETTEMBRE: per chi non si accontenta della "verità"




O' DOCUMENTO



Fischiano Mariastella Gelmini, la polizia gli chiede i documenti

Eccolo lo stile della nuova destra: è punito anche il dissenso. Così chi fischia un rappresentante del governo viene identificato dalla polizia. Il governo Berlusconi, il più a destra che l’Italia abbia mai avuto, mostra così in ogni occasione l’idea di società che vuole imporre. Stavolta tocca a Mariastella Gelmini, che per far approvare la sua “riforma Moratti” (non la chiamano così anche se è uguale), fa la spola per le scuole italiane a cercare di spiegarla. Il ministro dell’Istruzione era arrivata al liceo scientifico “Isacco Newton” di Roma per partecipare alla presentazione del libro del giornalista Giovanni Floris «la fabbrica degli ignoranti», ma alla fine Gelmini si è trovata a dover difendere le sue riforme in un’aula magna «ring» dove una decina di precari l'hanno contestata e «interrogata» sulle sue decisioni.

La mattinata era cominciata con l'inno d’Italia. Tutti in piedi, Gelmini compresa, (tra gli ospiti anche l'ex ministro Giuliano Amato e in sala c'erano la segretaria dell'Ugl Renata Polverini e Silvia Costa, assessore dell'Istruzione nel Lazio) per cantare le parole di Mameli. Poi il dibattito. Il ministro ha incassato applausi quando ha parlato di una scuola che «non è di destra né di sinistra» e quando ha espresso la necessità di fare «scelte coraggiose» e quando ha annunciato l’arrivo di una carta oro per sconti agli insegnanti. Ma i nervi sono saltati quando si è parlato di ritorno al maestro unico e piano programmatico per l'istruzione (vedi alla voce fondi e tagli).

«Non capisco perché dobbiamo pagare tre insegnanti quando tutto funziona anche con uno solo», è sbottata Gelmini alla folla rumorosa. Ed è partito qualche fischio. Al termine del suo primo intervento, qualcuno dei presenti la applaude fragorosamente, dopo che ha contestato l'opposizione a suo dire pregiudiziale del Pd ammonendo: «La scuola è di tutti, la campagna elettorale è finita». A quel punto, a sovrastare gli applausi arrivano soprattutto i fischi, qualcuno grida «Vergogna!», poi la cosa sembra finire lì. Ma con una prontezza d'intervento forse un po’ sorprendente, vista la modesta entità della contestazione, alcuni agenti in borghese si avvicinano ai contestatori, e dopo un timido tentativo di ridurli al silenzio o di convincerli ad allontanarsi, li identificano uno per uno chiedendo loro i documenti. Si tratta, in gran parte, di insegnanti precari di alcuni coordinamenti sorti in questo periodo per contrastare i provvedimenti di contrazione della spesa e di “taglio” di cattedre varati dal governo Berlusconi.

«Quanto avvenuto questa mattina in un liceo romano è inquietante - dice Pina Picierno, ministro “ombra” delle Politiche giovanili del Pd -. Ma in che Paese ci troviamo se ai fischi di qualche contestatore al ministro Gelmini si risponde con l'intervento delle forze di polizia? Pochi fischi e addirittura scatta l'identificazione, siamo all'assurdo».

«Si tratta di un gesto intimidatorio di cui chiediamo conto allo stesso ministro degli Interni. Di cosa si ha paura -chiede Picierno- di chi esprime idee diverse? Oggi dà noia chi fischia, domani magari chi scrive o chi la pensa diversamente. Un brutto spettacolo, indegno di un paese democratico. Come al solito -conclude l'esponente del Partito democratico- questo governo si dimostra forte con i deboli e debole con i forti. Comunque viste le misure del ministro Gelmini è bene che le questure si attrezzino perché in breve dovrà identificare tre quarti della popolazione italiana».

tratto da l'Unita.it

LE "GUARDIE" DEL PAPA...



Il pm di Roma sul No Cav Day
"Guzzanti offese, Grillo fece satira"


ROMA - Sabina Guzzanti indagata per vilipendio contro il Papa. La procura di Roma chiederà al ministro della Giustizia di procedere contro l'attrice per le parole su Benedetto XVI pronunciate l'8 luglio scorso durante il "No Cav Day" in piazza Navona. Il procuratore Giovanni Ferrara e il pm Antonello Racanelli hanno invece chiesto al gip di archiviare la posizione di Beppe Grillo, che aveva attaccato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: quella del comico genovese era satira. La prima reazione è di Antonio Di Pietro, che del No Cav Day fu tra i primi animatori: "Solo ai tempi dell'olio di ricino chi la pensava diversamente finiva in galera".

"Parole grevi e volgari". Secondo i magistrati, le parole della Guzzanti sono da ritenersi molto grevi e volgari, ma per poter procedere nei suoi confronti la legge prevede il via libera del Guardasigilli nel caso di vilipendio nei confronti del Papa, equiparato al capo dello Stato. Nel caso di Grillo, la procura ha considerato le sue esternazioni come diritto di critica, sotto il profilo della satira. Per quanto concerne le offese al ministro delle Pari opportunità Mara Carfagna, per il momento non è arrivata a piazzale Clodio alcuna querela, necessaria per aprire il procedimento.

Grillo, richiesta l'archiviazione. Nella richiesta di archiviazione della posizione di Grillo, inizialmente indagato per il reato previsto dall'articolo 278 del codice penale, (offesa all'onore o al prestigio del presidente della Repubblica), la procura sostiene l'infondatezza della notizia di reato per la sussistenza della discriminante del diritto di critica e di satira. In particolare, quest'ultimo rappresenta un'espressione del diritto di manifestazione del pensiero, garantito dall'articolo 21 della Costituzione. Il comico aveva chiamato il presidente "Morfeo Napolitano" e lo aveva contestato per aver firmato il cosiddetto Lodo Alfano.

"Il linguaggio della satira può essere paradossale". I magistrati si richiamano alla giurisprudenza consolidata, secondo cui il linguaggio della satira può essere anche paradossale e, nel valutarlo, non si applicano i normali criteri che si adottano nel giudicare altre manifestazioni del pensiero, come la cronaca. Nell'intervento di Grillo non c'erano, inoltre, espressioni volgari o ripugnanti.

Guzzanti e i Patti Lateranensi. Discorso diverso per le affermazioni della Guzzanti. Il reato ipotizzato nei suoi confronti è sempre quello disciplinato dall'articolo 278 del codice penale (che prevede l'autorizzazione per procedere del ministro della Giustizia) che si estende alle offese rivolte al Pontefice sulla base del Trattato Lateranense. Se il Guardasigilli non darà il via libera, l'inchiesta contro la Guzzanti sarà destinata all'archiviazione per mancanza di una condizione di procedibilità. In caso contrario, la procura andrà avanti. Nell'informativa inviata a piazzale Clodio dalla Digos c'era anche la trascrizione dell'intervista del giornalista Marco Travaglio, oltre a quelle di Grillo e Guzzanti, ma i magistrati hanno deciso di non prendere alcuna iniziativa per mancanza della notizia di reato.

Grillo: "Non mi interessa niente". Il comico non parla dell'argomento. Di Pietro invece commenta: "L'onore e il prestigio del Pontefice, al quale va il mio massimo rispetto, a mio avviso non sono calpestati dalla satira della Guzzanti che, proprio in quanto satira, va presa per quel che è. Si può condividere o non condividere - continua il leader dell'Idv - e neanche io l'ho condiviso quel giorno, ma solo ai tempi dell'olio di ricino chi la pensava diversamente finiva in galera. Ma si sa, essere una donna libera ai giorni nostri è un reato!".

Volontè: "Bene la procura". Di diverso parere il parlamentare dell'Udc, Luca Volontè: "Bene la procura di Roma sulle offese al Papa. La Guzzanti e company non invochino nessuna 'censura', le offese e gli insulti gratuiti devono essere sanzionati". E aggiunge: "Ironia e comicità quel giorno non stavano in piazza".

(10 settembre 2008) tratto da repubblica.it

mercoledì 10 settembre 2008

Oggi e sempre, viva la GRANDE MADRE AMERICA!!!



Fannie Mae e Freddie Mac, interviene il Tesoro americano

NEW YORK – Alla fine di un difficile dibattito, la Casa Bianca ha deciso ieri di autorizzare l'intervento dello stato per calmare i nervi di operatori e risparmiatori americani. Così, in serata di domenica, per consentire a tutti di assorbire la portata de provvedimenti ben prima della riapertura del mercati questa mattina, il Tesoro e la Fed hanno comunicato un pacchetto di azioni separate, ma coordinate, per rafforzare la posizione finanziarie di Fannie Mae e Freddie Mac, i principali detentori di portafogli mutui in America. Il pacchetto sarà subito inviato in Congresso per essere approvato con procedure d'urgenza. Nel frattempo si è cercato di creare consenso fra i principali bancieri americani per sostenere il mercato: Freddie in particolare, dovrà passare oggi un importante test con un collocamento obbligazionario di 3 miliardi di dollari. E un fallimento dell'operazione potrebbe avere conseguenze disastrose.

Il Tesoro chiede la discrezione di acquistare ingenti quote di capitale nelle due istituzioni che garantiscono il mercato secondario in America da qui ai prossimi due anni e avrà il mandato di ampliare, se necessario, le linee di credito per entrambe, ferme a un tetto di 2,5 miliardi di dollari da quasi 40 anni, quando l'indebitamento era di circa 15 miliardi di dollari. Oggi rispettivamente, Fannie e Freddie hanno un indebitamento di 800 e 740 miliardi di dollari. Insieme inoltre detengono un portafoglio misto di circa 5.000 miliardi di dollari, la metà dell'esposizione totale del sistema immobiliare americano. La Federal Reserve avrà invece un ruolo di consulente e sua volta, attraverso la Filiale di New York consentira' a Fannie e Freddie l'accesso allo sportello per l'erogazione del credito al tasso di sconto accettando in garanzia titoli delle due istituzioni. Queste misure si sono rese necessarie dopo che in una settimana, a conferma della straordinaria fragilità della situazione, Freddie e Fannie avevano perso circa il 50% del loro valore in Borsa. Il provvedimento di urgenza sarà inviato al Parlamento che dovrà ratificare al più presto i provvedimenti, inserendoli in un progetto di legge già in discussione alla Camera e al Senato. Il Tesoro ha tuttavia precisato che non intende nazionalizzare le due istituzioni, che non intende necessariamente tutelare gli azionisti, ovviamente esposti al rischio delle loro scelte. Piuttosto si cercherà di alleviare la crisi del piccolo consumatore.

Per farlo, c'è un obiettivo: rassicurare la comunità finanziaria mondiale sulla presenza vigile del governo americano in questa situazione di grande disordine e di evitare che oggi, sull'onda dell'incertezza, massicce ondate di vendita possano mettere di nuovo a rischio la stabilità dei mercati. La situazione infatti resta molto tesa. La notizia, alla vigilia del fine settimana, del fallimento di IndyMac, una banca con 32 miliardi di dollari di attività patrimoniali, pesantemente esposta nel settore immobiliare ha scosso i nervi dei risparmiatori oltre che degli operatori: al di là dei depositi protetti dalla Federal Deposit Insurance Corporation, che ha sequestrato la banca, 10.000 correntisti dell'istituzione hanno visto finire in polvere circa un miliardo di dollari dei loro risparmi. Il fallimento è il terzo più importante nella storia americana. E molti ora temono che altre banche più piccole a livello regionale, possano fare la stessa fine. «Non potevamo correre il rischio che una covergenza di più notizie negative potesse fare massa e provocasse una corsa agli sportelli – ha dichiarato a il Sole 24 Ore una fonte informata vicina al Tesoro –. Inoltre, era importante chiarire la differenza tra il caso Fannie Mae Freddie Mac, di natura più strutturale e il caso IndyMac, gravissimo, ma per ora isolato». Le tensioni tuttavia restano. Il Sole 24 Ore ha rilevato la preoccupazione di molti analisti anche per la stabilità di Lehman Brothers, una delle più antiche istituzioni a Wall Street. Indiscrezioni raccolte in Gran Bretagna inoltre, anticipano che due imporanti istituzioni bancarie (una delle due potrebbe essere la Halifax Bank of Scotland) versano in gravi difficoltà. Ma William Isaac, il presidente della Fdic all'inizio degli anni Ottanta ha cercto di rassicurare. Oggi, ha detto, i fallimenti ci sono e ci saranno, ma restano casi isolati non sistemici come alla fine degli anni Ottanta, quando complessivamete fallirono oltre 3.000 casse di risparmio americane.
Di questa situazione, delle vie d'uscite, della necessità improrogabile di dare un segnale forte ma non disperato si è parlato in modo frenetico durante tutto il fine settimana tra Washington e New York. Il Tesoro ha formato gruppi di lavoro che hanno esaminato libri contabili di Fannie e Freddie e di altre istituzioni fragili; ha organizzato conference call con le principali banche e con la Fed, con l'obiettivo di convincere le istituzioni più solide a sottoscrivere i tre miliardi di dollari di debito che saranno collocati oggi sul mercato per conto di Freddie Mac. La Federal Reserve ha invece riunito d'urgenza il consiglio dei governatori e di concerto si è deciso di garantire l'erogazione di imporanti nuove linee di credito. Alla fine si è concluso che i "malati" più gravi erano Freddie Mac e Fannie Mae. È su queste due istituzioni che poggia l'intero sistema che sostiene il mercato secondario sui mutui in America. Il fallimento isolato di alcune banche, pur preoccupante, non dovrebbe necessariamente avere lo stesso impatto sistemico. La priorità principale dunque doveva essere quella di garantire la solvibilità di Freddie Mac e di Fannie Mae. Si da per certo comunque, che in questa situazione di incertezza vi saranno degli aumenti dei tassi di interesse per mutui a lungo termine. Questo potrebbe peggiorare la recessione del settore immobiliare e la recessione in genere. Ma, almeno, si tratterà di un fenomeno guidato e non affidato al panico di un mercato fuori controllo.

dal nostro corrispondente Mario Platero

tratto da ilsole24ore.com

sabato 6 settembre 2008

BARATTO!!!



Dagli aeroplani all'immobiliare
Le contropartite per l'operazione


"ALZI la mano chi non sarebbe pronto a investire nell'Alitalia!" esclamò come sempre guascone Silvio Berlusconi il 7 giugno scorso dinanzi ai giovani industriali riuniti a Santa Margherita Ligure.

La sala plaudente di fans si fece repentinamente sorda e grigia, molti distolsero imbarazzati lo sguardo dall'amor loro interdetto sul palco e nessuno ebbe il coraggio di alzare né una mano né un dito. Neanche la neopresidente di Confindustria Emma Marcegaglia, la cui azienda di famiglia spicca oggi tra i magnifici sedici ardimentosi che si sono iscritti al club dei salvatori della patria, accettando di partecipare al "Pittoresco Capitalistico" che va sotto il nome di "Operazione Fenice", quella che dovrebbe far risorgere dalle ceneri l'ectoplasma della Compagnia di bandiera.

Pochi giorni dopo Santa Margherita moriva a Roma quasi novantenne, e non dal ridere, Umberto Nordio, l'ultimo presidente dell'Alitalia che firmò bilanci in attivo, ma che giusto vent'anni fa fu cacciato da Romano Prodi, allora presidente dell'Iri, perché era un po' troppo autonomo. Cos'è successo da quei primi giorni di giugno capace di coagulare la coraggiosa cordata che sfiderà guidata da Roberto Colaninno la legge di gravità oltre a quella del mercato? E' successo che uno stuolo di emissari politici sguinzagliati da Berlusconi, dal banchiere Gaetano Miccicché al factotum Bruno Ermolli, ha spiegato al colto e all'inclita, seppur ve ne fosse bisogno, che questa non è una faccenda qualunque, ma "è una delle partite che contano nel capitalismo italiano", come dice sempre Cesare Geronzi, impegnato a sua volta nella partita delle partite, quella che - Mario Draghi permettendo - lo dovrebbe portare al controllo assoluto di Mediobanca e della Galassia del grande potere finanziario da Trieste a Roma, da Milano a Torino, orfano ormai da anni di Enrico Cuccia. Chi resta fuori dalla partita Fenice non avrà da guadagnarci su altri ben cospicui fronti finanziari.

Così è nata la cordata dei patrioti coraggiosi, i 16 "coscritti" - ma quanti altri si accoderanno sull'onda della tremontiana economia sociale di mercato ? - disposti a fare gli azionisti "captive" del governo sotto le vesti di "cavalieri bianchi". In cambio di che? Con quale contropartita politica derivante dal rapporto privilegiato con Palazzo Chigi, che su rifiuti napoletani e Alitalia si è giocato la periclitante credibilità degli annunci? Eugenio Scalfari, Francesco Giavazzi, Tito Boeri, Franco Debenedetti e altri hanno già ritratto a grandi linee l'album di famiglia dell'"Operazione Fenice", che, nella migliore tradizione, è nutrita di politica, l'unica che sembra poter dare "dividendi", con la pubblicizzazione delle perdite e la privatizzazione dei profitti, a questo capitalismo che aborrisce di fatto, se non a parole, il libero mercato. Come vuole la religione monopolista e antimercatista del "Lider Maximo", nato a suo tempo sulla benevolenza di Bettino Craxi e di qualche loggia bancaria e oggi spalleggiato dall'ideologo Giulio Tremonti.

L'ha detta bene Michael O'Leary, patron di Ryanair: "Uno sport folle": l'interferenza della politica in Italia è uno sport folle. Cui i capitalisti nutriti di animal spirits, di shumpeteriana gagliardia, si acconciano con entusiasmo. Ne abbiamo almeno sedici nel "Pittoresco Capitalistico" che va in scena in queste ore, ma potrebbero ancora crescere, attratti dalle contropartite governative. Quali contropartite? Non scherziamo.

Altro che il Ponte sullo Stretto, di cui Benito Mussolini annunciò l'imminente inizio dei lavori settant'anni fa, ma che forse non si farà mai, o che comunque noi purtroppo non vedremo. C'è pronta la manna del 2015: l'Expò di Milano, la ex capitale morale che torna grande, maestosa, quasi da bere, come ai bei tempi. Scorri i nomi dei sedici ardimentosi e non ne trovi uno che non sia in attesa di assai lucrosi favori governativi.

Lasciamo stare per un istante Salvatore Ligresti, palazzinaro e assicuratore, già protagonista della Milano da bere e di quella in manette, i Benetton, Tronchetti Provera, Marcellino Gavio, i pubblici concessionari autostradali, i proprietari di aeroporti e stazioni, e gli altri i cui interessi, curati con affetto in cambio dell'intervento patriottico, sono evidenti: 16 miliardi pubblici d'investimenti e di relativi appalti per l'Expò destinati ai padiglioni, ma soprattutto a due autostrade, due metrò, una nuova tangenziale, stazioni, ferrovie e quant'altro.

Lasciamo stare Francesco Caltagirone Bellavista che con l'Ata ha mire consistenti su Linate e su altri cospicui business milanesi, dopo aver ristrutturato a Venezia il Molino Stucky. Tralasciamo anche Emilio Riva, l'acciaiere tradizionale supporter berlusconiano di ferro, e Marco Fossati che deve difendere il suo investimento in Telecom dalle mire spagnole. E, per carità, la Emma che, poveretta, è sulla graticola di Confindustria e ha Berlusconi che le fiata sul collo. Carlo Toto poi deve in qualche modo far volare quell'Airone zoppo e scalcagnato che ha sul gobbo. Claudio Sposito e Salvatore Mancuso, bontà loro, rispondono all'appello del premier con un "chip" milionario che, statene certi, produrrà interessanti favori governativi ai loro fondi.

Concentriamoci piuttosto su Davide Maccagnani, imprenditore ignoto ai più, che proprio incuriosisce. Ex titolare, presidente e amministratore delegato della Simmel Difesa, unico produttore in Italia di munizioni e di spolette di medio e grosso calibro per cannoni navali, oltre che di esplosivi, teste missilistiche, razzi e sistemi d'arma a razzo, questo Davide ha appena venduto l'azienda, con stabilimenti a Colleferro e ad Anagni, vicino Roma, agli inglesi della Chemring.

Di Davide, che si divideva tra Torino e gli stabilimenti laziali dove ci fu un'esplosione che provocò un morto e molti feriti, il "santino" del premio di un "Gran Galà Stampa" del 2003 ci racconta che "è uno dei più stimati e apprezzati capitani d'industria a livello intercontinentale, un industriale che si è fatto veramente da solo con notevoli sacrifici, con lo studio, con l'applicazione, con il coraggio e la grandissima perseveranza".

Che c'entra Maccagnani con l'Alitalia ? Non disperate, ha messo via i soldi degli inglesi che hanno comprato i suoi missili di Colleferro e ha messo in piedi una piccola immobiliare, la Macca srl. Volete vedere che la Macca, a dispetto della sigla casereccia, spunterà in qualche bell'affare edilizio milanese, visto che tra Scilla e Cariddi non si muoverà neanche un ciotolo? Del resto un produttore di teste missilistiche che subentrò anni fa alla Fiat e alla Snia BPD nel business delle armi deve avere ganci governativi e con i Servizi di primaria qualità. Ci riserviamo magari di chiederlo, se ci darà udienza, a Gianni Letta, il cui nipote Enrico in questa vicenda è stato il più realista: con l'"Operazione Fenice", stanno facendo un'altra Efim, l'ente voluto da Aldo Moro e Pietro Sette, la cui liquidazione costò ai cittadini italiani settemila o più miliardi del tempo.

Poi ci sono i fratelli Fratini, Corrado e Marcello, che facevano jeans in Toscana, area privilegiata di Denis Verdini, neocoordinatore nazionale di Forza Italia, l'uomo che fa venire il morbillo a Fabrizio Cicchitto, l'antico trotskista della sinistra lombardiana che, iscritto alla Loggia P2 come l'attuale capo Berlusconi, criticava Berlinguer da sinistra e che purtroppo tutte le sere ci tocca subire nei telegiornali nazionali. Ma ancora per poco, finché il suo capo toscano, con ottimi agganci di tutti i tipi a cominciare da quelli veri massonici, non metterà all'incasso il ruolo appena assunto al posto dell'ecumenico Sandro Bondi e quello svolto con Ermolli e altri nella leva dei coscritti Alitalia. Questi Fratini, insomma, un po' stufi degli stracci griffati, hanno messo su indovinate che? Un'immobiliare, la Fingen Real Estate. Chissà che la nuova nata non conquisti qualche appezzamento al sole ai confini della Brianza, sulle soleggiate terre dell'Expò 2015.

"Magliana ai magliari", ci dice sghignazzando un ex amministratore delegato che naturalmente non vuole essere citato, in onore al "Pittoresco Capitalistico" d'Italia. Non resta allora che un flebile e assai poco speranzoso interrogativo: sarà Colaninno a salvarci dal capitalismo intossicato dalla politica?

(30 agosto 2008) di ALBERTO STATERA tratto da repubblica.it

INDOVINA QUALE è L'ORIGINALE...



NONOSTANTE LA CORDATA ITALIANA...ALLA FINE ARRIVANO I GALLI!!!

la cordata italiana...



e alla fine arrivano i Galli ?!



Air France non molla Alitalia
"Vorremmo la maggioranza"

ROMA - Sacconi esclude che Air France possa arrivare ad avere la maggioranza della nuova Alitalia. Tremonti è prudentissimo, e dice che del Piano Fenice e dei futuri, possibili rapporti con i francesi parlerà mercoledì in Parlamento.

Ma Parigi travolge il canovaccio di tutele e prudenze e reticenze italiane. E da fonti vicine alla compagnia franco-olandese trapela che l'intenzione reale è quella di controllare Alitalia tra cinque anni, quando scade il divieto di cessione delle quote da parte dei soci Cai. "In linea teorica - dicono dalla Francia - vorremmo avere il controllo di maggioranza. Ma, per il momento, siamo disposti anche ad entrare in pista con il 10-20%".

Questa quota di minoranza sarebbe quella che, secondo il quotidiano economico francese La Tribune, la Cai è disposta a concedere da subito a un partner straniero. Quindi, anche a Klm-Air France. In campo, come ha precisato il ministro Sacconi, ci sono anche altre offerte straniere, anche British e Lufthansa. E soprattutto, in campo ci sono le incognite sulla proprietà a medio termine. Con i sindacati, per esempio, che temono un passaggio di mano e di nazionalità della quota di maggioranza. Nella riunione di ieri, non a caso, il leader della Cisl Raffaele Bonanni ha chiesto "clausole di salvaguardia precise per impedire eventuali scalate da parte dei necessari ed importanti partner internazionali".

Il partner straniero. Il suo ingresso e con quale posizione è dall'inizio la vera questione di tutta l'operazione Alitalia. Il punto d'onore del governo Berlusconi che in campagna elettorale si mosse per far saltare il tavolo di vendita con Air France già allestito dal governo Prodi e ha fatto dell'italianità della compagnia l'obiettivo di tutta l'operazione. La Cai e i suoi capitani coraggiosi sono molto reticenti sul punto. Forse anche per questo non è stato consegnato ai sindacati il piano industriale del Progetto Fenice, il rilancio cioè di Alitalia. E comunque, dicono da giorni i sindacati in blocco, "il progetto sembra andare nella direzione di una compagnia molto forte sul mercato nazionale, debole su quello intercontinentale e quindi pronta a diventare succursale locale di un network globale internazionale". Come uno dei tre colossi Air France-Klm, British e Lufthansa.

Indiscrezioni, smentite e garanzie. La girandola di voci, che si era fermata per qualche giorno, è ripartita stamani con un articolo su La Tribune. Secondo il quotidiano economico francese molto legato all'industria, "prima ci sarebbe l'acquisto di un 10-20% nella newco Alitalia. Poi nel 2013 la possibilità, per AF di prendere la maggioranza del capitale". La proposta, si spiega, "sarebbe stata formulata in segreto alla compagnia franco-olandese dai dirigenti di Intesa Sanpaolo lo scorso 27 agosto".

Immediata la raffica di smentite. "Ricostruzione del tutto priva di fondamento" dice un portavoce di Intesa-Sanpaolo". Ancora più netto il ministro Sacconi: "Escludo l'ipotesi secondo la quale Air France diventi socio di maggioranza della nuova compagnia aerea nel 2013". Solo che in serata non è più solo La Tribune a parlare dell'accordo. C'è anche l'agenzia di stanmpa francese Afp. E un altro ministro, questa volta Tremonti che con il Tesoro detiene il 49 per cento di Alitalia, non smentisce e rinvia a mercoledì, in una sede istituzionale come il Parlamento, ogni chiarimento. Mercoledì, un giorno prima della pretesa chiusura dell'accordo con le parti.

Fassino (Pd): "Governo e Intesa facciano chiarezza". Le indiscrezioni su Air France riaccendono anche il dibattito politico. Piero Fassino si augura che "l'ipotesi venga smentita o quanto meno ridimensionata. Se fosse confermata significa che questa soluzione messa in campo oggi è puramente transitoria e che in realtà è un ponte per arrivare a un trasferimento di Alitalia ad Air France, ma a condizioni molto più onerose di quelle contrattate solo qualche mese fa". L'esponente del Pd punta il dito contro "i privati della cordata Cai" e il possibile conflitto di interessi: "Ci sono imprenditori che hanno
interessi nel settore autostrade come in quello degli investimenti immobiliari per l'Expo 2015. Ho capito che il conflitto di interessi, in Italia, non è di grande presa, ma mi sembra che stiamo esagerando". Sugli interessi dei privati attaccano anche D'Alema e Casini (Udc). Scettici i sindacati, per cui il confronto sul piano in realtà non è mai partito. Più possibilisti Cisl e Uil. Anche se proprio Bonanni è stato il più categorico nel pretendere garanzie contro la cessione di Alitalia a stranieri. Ora e tra cinque anni.

(5 settembre 2008) tratto da repubblica.it

ALITALIA: NIENTE PANICO!!!




ALITALIA: CHI HA PERSO LA SCOMMESSA
di Michele Polo 02.09.2008
tratto da lavoce.info

Presentato come una scommessa vinta per il paese, il Piano Fenice sembra invece un vistoso passo indietro rispetto alla proposta Air France-Klm, fatta naufragare in marzo. La nuova Alitalia sarà un vettore incentrato sul mercato italiano, con un sostanziale monopolio sulla rotta Milano-Roma per la fusione delle attività con Airone. In più, l'intera operazione è caratterizzata da un bassissimo grado di trasparenza. Ma a suscitare preoccupazione è soprattutto il modo in cui i media hanno affrontato la questione.

Conclusi i festeggiamenti, diradato il fumo dei mortaretti, raccolti i cocci di qualche magnum di champagne, è forse il momento di fare qualche semplice conto per valutare se la soluzione prospettata per Alitalia con il Piano Fenice e con la cordata di imprenditori, rappresenti per il paese un successo, “una scommessa vinta” nelle parole del premier Berlusconi. O non sia invece un vistoso passo indietro rispetto all’opportunità che fino a marzo era sul tavolo con l’offerta Air France-Klm, fatta naufragare dall’allora candidato premier Berlusconi e dai sindacati. Perché se è chiaro che la vicenda Alitalia non si è certo conclusa con le novità di questi giorni, ed è ancora appesa a molti elementi di incertezza, è altrettanto chiaro che la responsabilità politica che il centrodestra e i sindacati si sono assunti facendo naufragare l’operazione Air France non può che essere valutata alla luce dell’esito ora proposto.

IL PIANO AIR FRANCE-KLM

Il piano di Air France approvato dal consiglio di amministrazione di Alitalia il 15 marzo 2008 prevedeva l’acquisto di Alitalia, il mantenimento del marchio e la presa in carico della sua difficile situazione debitoria, con una valutazione bassa purtroppo in linea con il mercato. Questa avrebbe portato comunque nelle casse dello Stato circa 300 milioni di euro.

Il piano industriale, finanziato con un aumento di capitale per 1 miliardo di euro garantito da Air France-Klm, comportava l’abbandono di Malpensa come secondo hub nazionale e lo spostamento e rafforzamento di molti voli su Fiumicino, hub italiano del nuovo gruppo assieme a Parigi e a Amsterdam, e la cancellazione dei voli in perdita in Italia, Europa e nel resto del mondo, pur mantenendo una dimensione internazionale alla compagnia. La flotta Alitalia avrebbe subito una forte ristrutturazione con la progressiva dismissione dei vecchi vettori.
Il contenimento dei costi operativi era affidato anche allo spostamento di alcune attività di servizi a terra da Alitalia Servizi al nuovo gruppo con esuberi di circa 1.600 addetti e la progressiva chiusura della attività cargo fortemente in perdita. Meno chiari gli ulteriori esuberi dalla ristrutturazione dei servizi esterni al nuovo gruppo, che sarebbero rimasti a Fintecna. Il perimetro aziendale ed economico di queste attività esterne sembra tuttavia più ristretto rispetto alla bad company oggi in discussione

IL PIANO FENICE

Il Piano Fenice presentato in questi giorni separa le attività di Alitalia conferendo a una bad company le attività in perdita e la situazione debitoria, con una collocazione a oggi non del tutto definita se non nella certezza che i debiti di Alitalia, stimati in oltre 1 miliardo di euro, verranno a gravare sui contribuenti italiani. L’apporto di capitali freschi è comparabile a quello del progetto Air France, se la cordata di imprenditori italiani confermerà i propri impegni per circa 1 miliardo di euro.
Il piano industriale e il profilo strategico della nuova compagnia si allontanano invece fortemente dalla collocazione che Alitalia avrebbe avuto, nell’ipotesi francese, come parte di uno dei principali gruppi internazionali. L’Alitalia partorita dal Piano Fenice sarà un vettore incentrato sul mercato italiano e con una riorganizzazione dei voli interni su sei scali principali (Roma, Milano, Torino, Venezia, Napoli e Catania) e vedrà la fusione delle attività con il secondo vettore italiano, Airone, costituendo in questo modo un sostanziale monopolio sulla rotta Milano-Roma, il boccone più ghiotto del mercato italiano. Questo modello di business risulta per sua natura fortemente esposto alla congiuntura nazionale, in un paese che non brilla nel panorama europeo per i suoi tassi di crescita, e tende a competere nei collegamenti point to point con le compagnie low cost già oggi presenti su numerose tratte italiane. Per dirla in modo sfumato, al di là dei trionfalismi di questi giorni, il piano industriale proposto non costituisce una prospettiva di sicuro successo negli anni a venire.
Infine, la ristrutturazione e il contenimento dei costi porteranno a esuberi finora quantificati in 7mila unità, con l’applicazione di ammortizzatori sociali e ricollocazione in altre attività su cui per ora nulla è dato sapere.
Non a caso, gli imprenditori che partecipano alla cordata hanno posto alcune condizioni per unirsi alla partita: l’individuazione di un partner internazionale, presumibilmente Lufthansa o Air France, che comunque oggi manca, la sospensione della normativa antitrust nella valutazione dell’operazione, applicando per la prima volta l’articolo 25 della legge italiana, e la riforma della legge Marzano per favorire il passaggio dalla vecchia Alitalia ai due gemelli, il gemello buono che andrà alla cordata degli imprenditori italiani e il gemello cattivo, la bad company, in dote ai contribuenti.

CHI HA VINTO LA SCOMMESSA?

Oltre che per queste misure ad hoc, l’intera operazione resta caratterizzata da una bassissima trasparenza. Abbiamo a suo tempo criticato il modo poco trasparente con cui, sotto il governo Prodi, si era gestita l’asta e la ricerca di un acquirente. Ma va detto che quei passaggi sembrano aria cristallina rispetto agli ovvi interrogativi che ci si pone in merito ai rischi dell’operazione odierna. Operazione che entra in forte conflitto con le normative europee e gli impegni a suo tempo assunti da Alitalia con l’aumento di capitale del 2004 e con il prestito ponte di questa primavera. Come pensino gli imprenditori della cordata di coprirsi dai rischi di un intervento di Bruxelles non è dato sapere. Come non è chiaro se esistano tavoli di compensazione a cui almeno alcuni dei partecipanti alla cordata pensino di accedere nel proprio business principale in cambio della buona volontà dimostrata.
È notizia degli ultimi giorni che Air France ha manifestato un interesse a riaprire il dialogo e anche ad assumere eventualmente una partecipazione di minoranza. Tutto ciò non sorprende, dal momento che, rispetto al piano che aveva presentato a primavera, Air France si troverebbe a trattare senza doversi accollare i debiti di Alitalia, potendo contare su margini elevati nel mercato interno derivanti dalla posizione dominante che a compagnia acquisterebbe nel mercato interno attraverso la fusione con Airone, e con una riduzione del personale ben più ampia di quella che aveva inizialmente prospettato.
Per contro, i cittadini italiani pagheranno i debiti Alitalia e i costi sociali dell’assorbimento dei forti esuberi, e pagheranno più cari i biglietti sul mercato interno. Verrebbe da dire, per richiamare le parole del presidente del Consiglio, che a vincere la scommessa sarà probabilmente Cyril Spinetta, il capo di Air France, ma chi da oggi la scommessa l’ha già persa sono i cittadini italiani.
Un’ultima postilla a questa vicenda. Il semplice confronto tra quanto oggi viene prospettato agli italiani e quanto invece quattro mesi fa è stato fatto scientemente naufragare, tra il Piano Fenice e il piano Air France, non è rintracciabile, con pochissime eccezioni, sulla stampa italiana. Quasi nessuno tra i giornali di opinione ha ricordato in questi giorni cosa era la famosa “svendita” allo straniero, quasi nessuno ha messo il lettore nella condizione di formarsi una opinione se veramente la scommessa era vinta o persa. L’informazione ha presentato l’operazione Alitalia con un unanimismo, una mancanza di equilibrio e un appiattimento quasi aziendale che segnalano un problema grave per la formazione dell’opinione pubblica e per il pluralismo. Su questo occorrerà tornare al di là della vicenda Alitalia.

Ci pisciano addosso e ci dicono che piove!!!

E PARTIVA L'EMIGRANTE...



Da Brescia a Reggio Calabria
Così la Gelmini diventò avvocato
L'esame di abilitazione all'albo nel 2001.
Il ministro dell'Istruzione: «Dovevo lavorare subito»


Novantatré per cento di ammessi agli orali! Come resistere alla tentazione? E così, tra i furbetti che nel 2001 scesero dal profondo Nord a fare gli esami da avvocato a Reggio Calabria si infilò anche Mariastella Gelmini. Ignara delle polemiche che, nelle vesti di ministro, avrebbe sollevato con i (giusti) sermoni sulla necessità di ripristinare il merito e la denuncia delle condizioni in cui versano le scuole meridionali. Scuole disastrose in tutte le classifiche «scientifiche» internazionali a dispetto della generosità con cui a fine anno vengono quasi tutti promossi.

La notizia, stupefacente proprio per lo strascico di polemiche sulla preparazione, la permissività, la necessità di corsi di aggiornamento, il bagaglio culturale dei professori del Mezzogiorno, polemiche che hanno visto battagliare, sull'uno o sull'altro fronte, gran parte delle intelligenze italiane, è stata data nella sua rubrica su laStampa.it da Flavia Amabile. La reazione degli internauti che l'hanno intercettata è facile da immaginare. Una per tutti, quella di Peppino Calabrese: «Un po' di dignità ministro: si dimetta!!» Direte: possibile che sia tutto vero? La risposta è nello stesso blog della giornalista. Dove la Gelmini ammette. E spiega le sue ragioni.

Un passo indietro. È il 2001. Mariastella, astro nascente di Forza Italia, presidente del consiglio comunale di Desenzano ma non ancora lanciata come assessore al Territorio della provincia di Brescia, consigliere regionale lombarda, coordinatrice azzurra per la Lombardia, è una giovane e ambiziosa laureata in giurisprudenza che deve affrontare uno dei passaggi più delicati: l'esame di Stato.

Per diventare avvocati, infatti, non basta la laurea. Occorre iscriversi all'albo dei praticanti procuratori, passare due anni nello studio di un avvocato, «battere» i tribunali per accumulare esperienza, raccogliere via via su un libretto i timbri dei cancellieri che accertino l'effettiva frequenza alle udienze e infine superare appunto l'esame indetto anno per anno nelle sedi regionali delle corti d'Appello con una prova scritta (tre temi: diritto penale, civile e pratica di atti giudiziari) e una (successiva) prova orale. Un ostacolo vero. Sul quale si infrangono le speranze, mediamente, della metà dei concorrenti. La media nazionale, però, vale e non vale. Tradizionalmente ostico in larga parte delle sedi settentrionali, con picchi del 94% di respinti, l'esame è infatti facile o addirittura facilissimo in alcune sedi meridionali.

Un esempio? Catanzaro. Dove negli anni Novanta l'«esamificio» diventa via via una industria. I circa 250 posti nei cinque alberghi cittadini vengono bloccati con mesi d'anticipo, nascono bed&breakfast per accogliere i pellegrini giudiziari, riaprono in pieno inverno i villaggi sulla costa che a volte propongono un pacchetto «all-included»: camera, colazione, cena e minibus andata ritorno per la sede dell'esame.
Ma proprio alla vigilia del turno della Gelmini scoppia lo scandalo dell'esame taroccato nella sede d'Appello catanzarese. Inchiesta della magistratura: come hanno fatto 2.295 su 2.301 partecipanti, a fare esattamente lo stesso identico compito perfino, in tantissimi casi, con lo stesso errore («recisamente» al posto di «precisamente», con la «p» iniziale cancellata) come se si fosse corretto al volo chi stava dettando la soluzione? Polemiche roventi. Commissari in trincea: «I candidati — giura il presidente della «corte» forense Francesco Granata — avevano perso qualsiasi autocontrollo, erano come impazziti». «Come vuole che sia andata? — spiega anonimamente una dei concorrenti imbroglioni —. Entra un commissario e fa: "Scrivete". E comincia a dettare il tema. Bello e fatto. Piano piano. Per dar modo a tutti di non perdere il filo».

Le polemiche si trascinano per mesi e mesi al punto che il governo Berlusconi non vede alternative: occorre riformare il sistema con cui si fanno questi esami. Un paio di anni e nel 2003 verrà varata, per le sessioni successive, una nuova regola: gli esami saranno giudicati estraendo a sorte le commissioni così che i compiti pugliesi possano essere corretti in Liguria o quelli sardi in Friuli e così via. Riforma sacrosanta. Che già al primo anno rovescerà tradizioni consolidate: gli aspiranti avvocati lombardi ad esempio, valutati da commissari d'esame napoletani, vedranno la loro quota di idonei raddoppiare dal 30 al 69%.
Per contro, i messinesi esaminati a Brescia saranno falciati del 34% o i reggini ad Ancona del 37%. Quanto a Catanzaro, dopo certi record arrivati al 94% di promossi, ecco il crollo: un quinto degli ammessi precedenti.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria».
I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme.

Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Da oggi, dopo la scoperta che anche lei si è infilata tra i furbetti che cercavano l'esame facile, le sarà però un po' più difficile invocare il ripristino del merito, della severità, dell'importanza educativa di una scuola che sappia farsi rispettare. Tutte battaglie giuste. Giustissime. Ma anche chi condivide le scelte sul grembiule, sul sette in condotta, sull'imposizione dell'educazione civica e perfino sulla necessità di mettere mano con coraggio alla scuola a partire da quella meridionale, non può che chiedersi: non sarebbero battaglie meno difficili se perfino chi le ingaggia non avesse cercato la scorciatoia facile?

Gian Antonio Stella
04 settembre 2008 tratto da corriere.it

Evviva la torre (di Pisa) che pende, che pende ma sempre sta su!



Ora d'aria
l'Unità, 4 settembre 2008_ Marco Travaglio


La notizia che la Procura di Milano intende indagare Nicola Latorre, vicecapogruppo del Pd al Senato, per l’ipotesi di reato di concorso nell’aggiotaggio contestato a Ricucci e Consorte nelle scalate del 2005 non è nuova. Almeno per i pochi che si sono ostinati a tenersi informati. Purtroppo, mai come nel caso di quest’indagine bipartisan, la politica s’è rivelata incompatibile con la verità delle carte.

Breve riepilogo. Il 20 luglio 2007 il gip Clementina Forleo chiede al Parlamento, su istanza della Procura di Milano, l’autorizzazione a usare 60 telefonate intercettate fra alcuni furbetti del quartierino e sei parlamentari, 3 di Forza Italia (Cicu, Comincioli e Grillo) e 3 Ds (D’Alema, Fassino e Latorre). Di questi solo Grillo è già indagato, perché contro di lui pendono elementi diversi dalle telefonate. Su Fassino, Cicu e Comincioli, nessun sospetto: le telefonate con le loro voci servono a corroborare le accuse a Consorte e a Ricucci, ma la presenza di quelle voci rende necessario - in base alla demenziale legge Boato - l’ok del Parlamento anche per usarle contro non parlamentari.

Restano D’Alema e Latorre, che per il gip Forleo potrebbero essere “consapevoli complici del disegno criminoso”: l’aggiotaggio contestato a Consorte per la scalata Bnl e a Ricucci per l’assalto al Corriere. Dunque la gip chiede al Parlamento di autorizzarne l’uso a carico sia dei due furbetti, sia dei due politici. La Casta insorge come un sol uomo, accusando la Forleo di aver abusato del suo potere, “scavalcando” la Procura nell’accusare due politici non ancora indagati. Il pm Greco dichiara al Sole-24 ore che la Procura è sulla stessa linea del Gip: senza l’ok delle Camere, non si possono indagare due politici in base a telefonate non ancora autorizzate. Ma contro la Forleo, abbandonata dall’Anm e costretta a difendersi da sola, continua l’iradiddio di attacchi culminati al Csm in un procedimento disciplinare e in una procedura per trasferirla. Dal primo viene assolta, la seconda viene accolta a gentile richiesta della Casta, tant’è che oggi Clementina sta traslocando a Cremona.

Intanto le giunte di Camera e Senato autorizzano l’uso delle telefonate per Fassino e Cicu (che non rischiano di esser indagati) e salvano gli “indagabili” D’Alema e Latorre. Per D’Alema si ricorre a un cavillo: siccome nel 2005 era europarlamentare, la richiesta va inoltrata a Bruxelles, dov’è ancora pendente in commissione (presieduta dal forzista Gargani). Per Latorre il Senato, dopo 10 mesi di melina, decide di non decidere e rispedisce la richiesta al mittente. Cioè ai giudici di Milano. Qui, a fine luglio, la Procura ha chiesto e ottenuto dal gip Gamacchio (Forleo era assente per malattia) una nuova istanza al Senato per usare le telefonate di Latorre con Ricucci e Consorte “al fine di valutare la posizione del senatore Latorre”, visto che esse sono l’unica fonte per “l’innesco di una investigazione”. Non si può indagare su Latorre finchè il Senato non sbloccherà le intercettazioni. Su Ricucci e Consorte, invece, l’ok del Parlamento non serve più in quanto nel frattempo la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge Boato là dove richiedeva il permesso delle Camere anche per le telefonate contro i privati cittadini a colloquio con parlamentari. Il che dimostra che la Forleo era in perfetta linea con le richieste della Procura e non aveva scavalcato nessuno né commesso alcun abuso. Sarebbe il caso che qualcuno le chiedesse scusa, a cominciare dal Pg della Cassazione e dal Csm che l’han cacciata in malomodo, trattandola come una mezza matta. Ma soprattutto sarebbe il caso che il Senato accogliesse quanto prima la richiesta, consentendo alla Procura di fare le indagini necessarie a stabilire se Latorre abbia commesso reati o no.

L’interessato si rimette al voto del Senato, “qualunque cosa deciderà per me va bene”. Eh no, troppo comodo. La maggioranza l’ha il Pdl che prevedibilmente, con la consueta e pelosa solidarietà di casta, tenterà di salvare Latorre perché una mano lava l’altra, cane non morde cane, oggi a te domani a noi. Il Pd dovrebbe, per mostrarsi davvero alternativo, respingere il gentile omaggio sulla linea Prodi: “Nulla da nascondere, si indaghi pure”. Un anno fa Veltroni dichiarò a MicroMega: “Fassino e D’Alema han chiesto alla Camera di autorizzare le intercettazioni che li riguardano. Dunque nessun limite verrà frapposto all'azione dei giudici”. Dunque anche per Latorre il Pd chiederà il via libera del Senato, o è cambiato qualcosa?

tratto da voglioscendere.it