giovedì 14 agosto 2008

VIVERE: DIRITTO O DOVERE?

Ma anche morire è una «scelta di vita»

Il gesto fondativo di ogni etica sta nella scelta per l'esistenza. Trasformare il diritto di vivere in un dovere vorrebbe dire annullare il libero arbitrio dell'uomo, riducendolo a schiavo della società.

Per un elementare principio di coerenza chi ritiene che la vita sia sacra non potrà mai ritenere eticamente lecito qualcosa che si approssimi a un «diritto di morire», così come, per lo stesso principio, chi ritiene che la vita sia un continuo progetto di esistenzializzazione messo in atto dal soggetto attraverso la sua libertà, non potrà mai acquietarsi di fronte a chi gli nega la possibilità di esistenzializzare, con una scelta estrema, oltre che la propria vita anche la propria morte. Nulla di stupefacente, quindi, se dal Vaticano giungono sistematici strali di protesta contro l'eventualità di una «dolce morte». Tuttavia alcune prese di posizioni non mancano di sorprendere, soprattutto per l'apparente apoditticità da cui sembrano essere contraddistinte.

In questo senso paiono esemplari le parole dell'Avvenire all'indomani della sentenza con cui la Corte d'Appello di Milano dichiarava legittima la sospensione dei presidi medici che da sedici anni tengono Eluana Englaro in stato vegetativo permanente, cioè in uno stato di meccanica sospensione tra una vita e una morte dalla «naturalità» sempre più sfuggente.

«La decisione dei giudici è obiettivamente necrofila - scriveva il quotidiano della Conferenza episcopale - perché apre le porte alla morte e chiude alla vita». Dalla sentenza della Corte d'Appello a oggi è stato un rincorrersi di pareri, ricorsi e finanche interventi parlamentari. Moltissimi dei quali in linea, nella sostanza, con la posizione vaticana: arrestare l'alimentazione artificiale significherebbe stare dalla parte della morte e, dunque, contro la vita.

Argomentazione che apparentemente non fa una piega. Apparentemente, perché se si prova a scavare più a fondo si arriva a scoprire che non è poi così facile etichettare e distinguere tra retti difensori della vita e necrofili partigiani della morte. HansJonas, probabilmente uno dei filosofi più importanti del Novecento e sicuramente uno dei giganti del dibattito bioetico, tra l'altro molto citato dalla bioetica cattolica per le sue posizioni «conservatrici» sulle questioni di inizio vita, conclude uno dei suoi più importanti interventi sull'eutanasia in modo paradossale: «È il concetto di vita, non quello di morte, che in definitiva governa la questione del diritto di morire». Secondo Jonas il «diritto di vivere come fonte di tutti i diritti» include anche il «diritto di morire». Com'è possibile?

Quel che è da capire, per Jonas, è se accanto al «diritto di vivere», da tutti invocato come argomento conclusivo contro ogni tentativo di «staccare la spina» a chi si trova, come Eluana, in coma irreversibile, vi sia anche un «dovere di vivere». È da capire, cioè, se la società potrebbe avere, dice Jonas, «non solo un dovere nei confronti del mio diritto-di-vivere, ma anche il diritto da far valere contro di me il mio dovere-di-vivere».

La risposta è un secco no, perché fare della vita un dovere incondizionato finirebbe per condurre a conseguenze morali «mostruose». Imporre l'alimentazione artificiale, come nel caso di Eluana, oppure imporre la respirazione artificiale, com'è stato per Piergiorgio Welby, a un paziente senza più alcuna speranza di veder mutata la propria sorte e, ovviamente, liberamente e coerentemente decisosi per l'interruzione del trattamento, significherebbe per esempio negargli la possibilità di coincidere con sé stesso, rendendolo una terza volta prigioniero. Prigioniero della sua malattia, prigioniero della volontà di un terzo, prigioniero di una astrazione, vale a dire di una vita ridotta a feticcio.

Senza considerare, in tutto questo, la posizione dell'arte medica: il «servire la vita» che ne definisce il senso si è ormai infatti dilatato fino a superare, dice Jonas, «gli antichi compiti di guarire e alleviare il dolore», finendo col confondere il suo scopo in un sistematico differimento della morte, mentre suo compito sarebbe «mantenere viva la fiamma della vita, non la sua cenere ardente, per quanto essa debba custodire anche lo spegnersi; non lo è affatto l'imposizione di sofferenze e l'umiliazione che servono soltanto all'indesiderato prolungamento dell'estinzione».

Contro l'assurdità morale di un dovere-di-vivere può inoltre esser citato anche un altro importante filosofo, Pietro Piovani, uno dei pensatori più originali del scuola filosofica italiana del secondo novecento. Per Piovani il gesto fondativo di ogni etica sta nella scelta per l'esistenza. Ognuno di noi nasce senza averlo voluto e per questo, dice il filosofo napoletano, si scopre come «volente non volutosi», come cosa tra cose; è la decisione per l'esistenza che libera il soggetto dalla cosalità originaria e lo spinge verso un processo di soggettivazione che lo accompagnerà, scelta dopo scelta, fino alla morte.

Trasformare il diritto alla vita in dovere di vivere equivarrebbe allora a privare, perlomeno retrospettivamente, ognuno di noi della possibilità fondamentale di uscire dalla nostra cosalità originaria. Se c'è un dovere di vivere non c'è più spazio per alcuna scelta, per alcuna oggettivazione nello spazio dinamico dell'etica. Un incondizionato dovere di vivere che la società potesse esigere nei confronti di chicchessia finirebbe quindi con l'annichilire il senso profondo della «della decisione esistenziale originaria», Se c'è un dovere di vivere rischia insomma di non esserci più posto per l'etica.
La tecnica sta trasformando nozioni apparentemente immutabili, vita e morte ridefiniscono i propri confini. Nello smarrimento generale una cosa è certa: sarà sempre più difficile distinguere tra retti difensori della vita e necrofili partigiani.
L'Unità
di Cristian Fuschetto