lunedì 29 giugno 2009

QUELLE DONNE A SUD DI GOMORRA di Roberto Saviano

ESSERE donna in terra criminale è complicatissimo. Regole complesse, riti rigorosi, vincoli inscindibili. Una sintassi inflessibile e spesso eternamente identica regolamenta il comportamento femminile in terra di mafie. È un mantenersi in precario equilibrio tra modernità e tradizione, tra gabbia moralistica e totale spregiudicatezza nell'affrontare questioni di business. Possono dare ordini di morte ma non possono permettersi di avere un amante o di lasciare un uomo. Possono decidere di investire in interi settori di mercato ma non truccarsi quando il loro uomo è in carcere. Durante i processi capita spesso di vedere donne accalcate negli spazi riservati al pubblico, mandano baci o semplici saluti agli imputati dietro le gabbie. Sono le loro mogli, ma spesso sembrano le loro madri. Vestirsi in maniera elegante, curarsi con smalti e trucco mentre tuo marito è rinchiuso, è un modo per dire che lo fai per altri. Tingersi i capelli equivale a una silenziosa confessione di tradimento. La donna esiste solo in relazione all'uomo. Senza, è come un essere inanimato. Un essere a metà. Ecco perché le vedi tutte sfatte e trascurate quando hanno i mariti in cella. È testimonianza di fedeltà. Questo vale per i clan dell'entroterra campano, per certa 'ndrangheta, per alcune famiglie di Cosa Nostra. Quando invece le vedi vestite bene, curate, truccate, allora il loro uomo è vicino, è libero. Comanda. E comandando riflette sulla sua donna il suo potere, lo trasmette attraverso la sua immagine. Eppure le mogli dei boss carcerati, sciatte sino a divenire quasi invisibili, sono spesso quelle che facendone le veci più comandano.

Tutte le storie delle donne in terra criminale si somigliano, sia che abbiano un destino tragico sia che riescano a galleggiare nella normalità. In genere marito e moglie si conoscono da adolescenti e celebrano il loro matrimonio a venti, venticinque anni. Sposare la ragazza conosciuta da piccola è la regola, è condizione fondamentale perché sia vergine. In genere, invece, all'uomo è permesso di poter avere amanti, ma il vincolo dato dalle loro mogli negli ultimi anni è che siano straniere: russe, polacche, rumene, moldave. Tutte donne considerate di secondo livello, incapaci di costruire una famiglia, secondo loro, di educare i figli come si deve. Mentre farsi un'amante italiana o peggio del proprio paese sarebbe destabilizzante, e un comportamento da punire. Attraverso la sessualità passa molta parte della formazione di un uomo e di una donna in terra di mafia. "Mai sotto una femmina" è l'imperativo con cui si viene educati.

Se mentre fai l'amore, decidi di stare sotto, stai scegliendo pure di sottometterti nella vita di tutti i giorni. Farlo per puro piacere ti condannerà, nella loro logica, a sottometterti. "Mai sesso orale". Riceverlo è lecito, praticarlo a una donna è da "cani". "Non devi diventare cane di nessuno". Vecchio codice a cui si attiene ancora molta parte delle nuove generazioni di affiliati. E regole anche più rigide valgono pure al di fuori dell'Italia. La Yardie, la potente mafia giamaicana egemone in molti quartieri londinesi e newyorkesi, oltre che a Kingston, ne è un esempio. Vietato praticare sesso orale e riceverlo, vietato sfiorare l'ano delle donne e avere rapporti anali. Tutto questo è considerato sporco, omosessuale (i gay sono condannati a morte nella cultura mafiosa giamaicana), mentre il sesso dev'essere una pratica forte, maschile e soprattutto ordinata. Senza baci. La lingua serve per bere, un vero uomo non la usa se non a quello scopo.
Gli affiliati delle cosche sono ossessionati non solo dalla loro virilità, ma da come poterla esercitare: farlo secondo la rigida applicazione di quegli imperativi categorici, diviene un rito con cui si riconfermano il loro potere. Valgono, quelle norme chiare e inderogabili, in pressoché tutti i paesi di 'ndrangheta, camorra, mafia e Sacra Corona Unita. E sono, a ben vedere, qualcosa in più del semplice specchio di una cultura maschilista. Nulla come quel codice sessuale dice forse come in terra di criminalità non possa esistere ambito che si sottragga alle logiche ferree di appartenenza, gerarchia, potere, controllo territoriale. Potere sulla vita e sulla morte, di cui la morte subita o data è posta a fondamento. E chi crede di poter esserne libero, si sbaglia. Il controllo della sessualità è fondamentale. Anche corteggiare diventa marcare il territorio. Avvicinarsi a una donna significa rischiare un'invasione territoriale.

Nel 1994 Antonio Magliulo di Casal di Principe tentò di corteggiare una ragazza imparentata con un uomo dei casalesi e promessa in matrimonio a un altro affiliato. Magliulo le faceva molti regali, e intuendo forse che la ragazza non era felicissima di sposare il suo fidanzato, insisteva. Era invaghito di questa ragazza assai più giovane di lui e la corteggiava come dalle sue parti è abituale. Baci Perugina a San Valentino, un collo di pelliccia di volpe a Natale, "postegge" ossia attese fuori dal luogo di lavoro nei giorni normali. Un giorno in piena estate un gruppo di affiliati del clan di Schiavone lo convocò per un chiarimento al lido La Scogliera di Castelvolturno. Non gli diedero neanche il tempo di parlare. Maurizio Lavoro, Giuseppe Cecoro e Guido Emilio gli tirarono una botta in testa con una mazzola chiodata, lo legarono e iniziarono a ficcargli la sabbia in bocca e nel naso. Più inghiottiva per respirare più loro lo ingozzavano. Rimase strozzato da una pasta di sabbia e saliva che gli si è cementificata in gola. Fu condannato a morte perché corteggiava una donna più giovane, col sangue di un importante affiliato, già promessa in moglie.

Corteggiare, chiedere anche solo un appuntamento, passare una notte insieme è impegno, rischio, responsabilità. Valentino Galati aveva diciannove anni quando è sparito il 26 dicembre 2006 a Filadelfia, che non è la città fondata dai quaccheri americani, ma un paese in provincia di Vibo Valentia, fondato da massoni. Valentino era un ragazzo vicino alla ndrina egemone. Aveva sangue ndranghetista e quindi divenne ndranghetista, lavorava per il boss Rocco Anello. Quando questi finisce in galera per aver organizzato un sistema di estorsioni capillare (per una piccola tratta ferroviaria ogni impresa che vi partecipava doveva pagargli 50 mila euro a chilometro), sua moglie Angela ha sempre più bisogno di una mano da parte della ndrina per andare avanti. Spesa, pulizia della casa, accompagnare i bambini a scuola. A Valentino capita di essere uno dei prescelti. Così lentamente, quasi naturalmente, nasce una relazione con Angela Bartucca. Punirlo è indispensabile e quando non lo si vede più girare per il paese, nessuno si stupisce.

Condannato a morte perché è stato con la moglie del boss. Solo sua madre Anna non vuole crederci. Suo figlio amante della moglie di un boss? Per lei è impossibile: è divenuto da poco maggiorenne, è troppo piccolo. Ammette che Angela veniva anche in casa a prendere il caffè, e da quando suo figlio è sparito, non si è fatta più vedere. Ma per la madre di Valentino questo non dimostra nulla. "Mio figlio non c'entra niente con questa storia". Insiste a credere vi siano altri motivi, ma per la magistratura antimafia non è così. Per lungo tempo Anna ha dormito sul divano perché lì c'era il telefono ed ha aspettato una chiamata di suo figlio, terrorizzata che in camera da letto potesse non sentire il suono "dell'apparecchio", come a sud lo chiamano. Così, alla fine, la madre di Valentino si chiude nel silenzio di un dolore che rispetta il silenzio dell'omertà, continuando a negare contro ogni evidenza.

La stessa sorte era già capitata a Santo Panzarella di Lamezia Terme, ammazzato nel luglio del 2002. Santo si era innamorato di Angela Bartucca quattro anni prima. Sempre lei. Gli hanno sparato contro un caricatore, convinti di averlo ucciso lo hanno messo nel portabagagli. Ma Santo Panzarella non era morto. Scalciava nel portabagagli. Così gli hanno spezzato gli arti inferiori per non farlo continuare a intralciare con i calci il suo ultimo viaggio; infine gli hanno sparato in testa. Di lui è stata ritrovata solo una clavicola, che ha però permesso di far partire le indagini. Anche lui condannato a morte per aver sfiorato la donna sbagliata. Valentino quindi forse sapeva di rischiare la pelle, ma ha continuato lo stesso ad avere una relazione con quella donna proibita.

Ci si immagina Angela Bartucca come una sorta di donna fatale, una mantide come i giornali l'hanno spesso chiamata, capace con la propria seduzione di far superare persino la paura della morte. Una donna che amava e amando condannava a morte. Ma in realtà a vederla non sembra essere così come vuole la leggenda. Dalle foto si vede il viso di una ragazzina, carina, la cui colpa principale era la voglia di vivere. Un marito in carcere per le donne di mafia significa astinenza totale. Di affetti e di passione. Solo i boss maturi, se sono sposati con donne più giovani e sono condannati a pene pesantissime, permettono che le mogli possano avere qualche marito sostitutivo. Quasi sempre si preferisce il prete del paese quando disponibile o un fratello, un cugino, un parente comunque. Mai un affiliato non del sangue del boss, che godendo del rapporto con la donna potrebbe assumerne in qualche modo di riflesso il carisma e sostituirlo.

Molte donne vestono di nero, anche quelle giovani, e quasi perennemente. Lutto per un marito ucciso. Lutto per un figlio. Lutto perché è stato ucciso un fratello, un nipote, un vicino di casa. Lutto perché è stato ammazzato il marito di una collega di lavoro, lutto perché è stato assassinato il figlio di un lontano parente. E così c'è sempre un motivo per tenere il vestito nero. E sotto il vestito nero si porta sempre un panno rosso. Le anziane signore indossavano una maglietta rossa, per ricordare il sangue da vendicare, le giovani donne indossano un intimo rosso. Un ricordo perenne del sangue che il dolore non fa dimenticare, anzi il nero accende ancora più il colore terribilmente intimo della vendetta.

Rimanere vedove in terra criminale significa perdere quasi totalmente l'identità di donna e ricoprire soltanto quella di madre. Se resti vedova puoi risposarti solo con il consenso dei figli maschi. Solo se ti risposi con un uomo dello stesso grado del padre (o superiore) all'interno delle gerarchie mafiose. Ma soprattutto solo dopo sette anni di astinenza sessuale e osservazione rigida del lutto. Perché gli anni della vedovanza dovevano corrispondere al tempo che secondo le credenze contadine un'anima ci metteva per raggiungere l'aldilà. Così si aspettava che l'anima arrivasse nell'altro mondo, perché se ancora stava in questo avrebbe potuto vedere la moglie "tradire" con un altro. Antonio Bardellino, boss carismatico di San Cipriano d'Aversa, tendeva a liberare le vedove da queste regole medievali e da questo perenne dolore imposto. In paese molti ricordano che fino a quando comandò, don Antonio diceva: "Si mettono sette anni per raggiungere il paradiso, noi andiamo da un'altra parte. E quella parte si raggiunge presto, int' a nà nuttata".

Ma quando fu fatto fuori Bardellino arrivò l'egemonia degli Schiavone, e tornarono le vecchie regole sessuali. Nell'agosto del 1993 Paola Stroffolino fu scoperta con un amante. Lei moglie di un boss molto importante, Alberto Beneduce, tra i primi ad importare cocaina e eroina direttamente sulle coste del Casertano. Dopo che Beneduce fu ucciso, lei non rispettò i sette anni di vedovanza e intraprese una relazione con Luigi Griffo. Il clan decise che un atteggiamento del genere era irriguardoso nei confronti del vecchio boss. E così per eseguire la punizione scelsero un suo caro amico, Dario De Simone. Invitò la coppia in una masseria di Villa Literno con la scusa di volergli far assaggiare le prime mozzarelle dell'estate. Un solo colpo alla testa per l'uomo e uno per la donna. Non di più per due infami che avevano insultato la memoria e l'onore del morto. Poi, aiutato da Vincenzo Zagaria e Sebastiano Panaro, l'uomo che aveva mostrato la sua lealtà uccidendo scaraventò i corpi in fondo ad un pozzo molto profondo a Giugliano.

Sandokan, cioè Francesco Schiavone, e suo fratello furono accusati come mandanti. La vedova di un boss è intoccabile, ma se si sporca con un altro uomo, perde lo status di inviolabilità. I pentiti che cercavano di superare l'incredulità dei giudici, diedero una risposta che è anche una sintesi eccezionale: "Dottò, ma scopare qui è peggio che uccidere. Meglio se uccidi la moglie di un capo. Forse puoi essere perdonato, ma se ci scopi sei morto sicuro". Amare, decidere di fare l'amore, baciare, regalare qualcosa, fare un sorriso, sfiorare una mano, provare a sedurre una donna, esserne sedotto può essere un gesto fatale. Il più pericoloso. L'ultimo. Dove tutto è legge terribile, i sentimenti e le passioni che non conoscono regole condannano a morte.

Copyright 2009 - Published
by Arrangement with Roberto Santachiara Agenzia Letteraria

SILVIO BERLUSCONI: HOW DOES HE DO IT?

With every breaking scandal, Italian prime minister Silvio Berlusconi wins over more of his countrymen's hearts and votes.
To most of us it seems extraordinary that Silvio Berlusconi is still prime minister of Italy. There can't be many politicians who could survive the sort of scandals he's been through: accusations of perjury, perverting the course of justice, proximity to the Mafia, accusations of membership of a sinister masonic lodge, of tax evasion and of corrupting public officials. And now, on top of all that, it has been discovered that he's been enjoying Dionysian parties with dozens of young girls at both of his Sardinian and Roman villas.
This time he doesn't even deny the central allegations. Not surprisingly, perhaps, since there's overwhelming evidence of what went on: there are photographs of topless girls in G-strings lounging around his villa, there are wiretaps of businessmen lining up escort girls for Silvio's parties. One escort has revealed she was given only half her "appearance fee" because she didn't stay the night (she didn't make that mistake again). The question isn't did he or didn't he, but simply: how on earth does he get away with it? How is it that a country we think of as a close neighbour, which we all think we know so well, has such a different morality to ours?
The answer lies largely in the fact that Italians suffer from scandal-fatigue. Ever since the First Republic was swept away under a tsunami of corruption allegations in the early Nineties, the country has been awash with scandal. It's as if there's no normality left against which to judge wrongdoing.
Open any Italian newspaper and you're likely to see pages and pages of breathtaking allegations and furious denials. On any day you choose you'll be able to read the leaked details of an ongoing investigation, astonishing wiretap intercepts and interviews with "key witnesses". It might be about the implosion of Parmalat, the dairy company, or about Luciano Moggi's machinations with Serie A referees, or about the murky security sector within Telecom Italia. There are so many scandals that public discourse is often little more than mud-slinging, and after a while people don't notice the real dirt anymore. As my Venetian uncle-in-law memorably told me years ago: "It's not that mud doesn't stick; it's that there's so much of it that it doesn't matter if it does."
There's also the fact that some Italians have a slightly different attitude towards fidelity. It may be because Catholicism is so voluptuous and forgiving compared with our austere puritanism; or else because the women, and men, seem so irresistibly attractive; or maybe it's because so many television shows have men of retirement age surrounded by showgirls in bikinis ... Whatever the reason, there's little outrage about an old, married man flirting with teenage wenches.
If anything there's envy of, and admiration for, his harem. It's telling that Berlusconi's line of defence last week wasn't Bill Clinton's outright denial: "I did not have sex with that woman." Instead, using a defence that would only work in a country where the male conqueror is more admired than the faithful husband, he simply said he hadn't paid for the sex because that would detract from the thrill of the conquest.
If anything, Berlusconi's libidinous exploits appear to enable the electorate to identify with him more closely. They make him appear a man of the people. Before Berlusconi's entry into Italian politics, the country's parliament was largely dominated by elderly grey men who were measured and refined, but also distant, aloof and superior. Berlusconi, by contrast, has always presented himself as a uomo qualunque, an Ordinary Joe. People seem to admire him for his refusal to watch his step, for the fact that he can never be anything other than a bull in a china shop. We foreigners find his show-boating and back-slapping and gestures and jokes rather cringey, but in Italy they all make him seem somehow normal, part not of a snooty elite but of the people, part of the sacred popolo. He is, says the propaganda, a man just like you, a simple man who loves money and sex.
The difference is, of course, that he has a lot more of both. But even the fact that he's a billionaire doesn't seem to alienate the voters. Paradoxically, many people believe that his vast wealth means that he can't be bought or corrupted. Indeed, whenever he's been accused of corruption, the accusation hasn't been that he's had his fingers in the till but precisely the opposite, that he was buying people rather than being bought. It's a subtle difference and it enables him to present himself as a man making financial sacrifices for the good of the country. You might not believe it, and I certainly don't, but millions of voting Italians clearly do.
And even if they didn't, there's the vexed question of whom else they would vote for. With Berlusconi you know, for better or for worse, what you're getting. If you vote for the Left, you've no idea what or whom you'll end up with. In the 10 years since I first moved to Italy, the Left has been led by, off the top of my head, Prodi, D'Alema, Amato, Rutelli, Fassino, Prodi again, Veltroni, Franceschini … and now they're about to start the electoral process for a new leader. There's something about the Left that is still reminiscent of the old-fashioned trasformismo, of the musical chairs of politics where everyone swaps places but no chair is ever taken away. It's the same merry-go-round of familiar faces, most of them decent enough but shockingly dull and very uninspiring. Next to Berlusconi, they seem short of red blood cells, short of chutzpah and charisma and cunning.
And it's cunning, of course, for which Berlusconi is truly admired. Being furbo – cunning or sly – isn't a slur in Italy; it's a sign that you can outsmart the rest, that you're clever enough to get away with it. Every time Berlusconi survives a scandal, his stock rises yet higher because people are in awe of how he does it. He's like Houdini, calmly shrugging off the shackles that magistrates and journalists and opposition politicians keep trying to put him in.
That admiration for his escapism suggests there's something about the moral geography in Italy that is simply different to our own. It's summed up in one of the adjectives most often applied to Berlusconi: spregiudicato. It's one of those words that is almost impossible to translate because it seems to have two contradictory meanings: both unconventional and unscrupulous. It implies someone who's without prejudice, a person who thinks for himself, a daring maverick. But it also means someone who disregards the rules, someone who rides roughshod over manners and etiquette and the accepted way of doing things. It sounds more of a criticism put like that, but in Italy the word
is usually a compliment, especially when applied to
the prime minister.
Funnily enough, that moral chasm between Italy and the rest of the world also helps Berlusconi maintain his grip on power. The more he's criticised abroad (and, let's be fair, barely a day goes by without some foreign publication putting the boot into the Italian electorate and their chosen leader), the more he plays the patriotic card. While the opposition quotes eagerly from the "authoritative" publication, Berlusconi accuses them of betrayal and portrays himself – another role with which so many identify – as the down-trodden victim, the hard-done-by Italian of old whom all foreigners love to hate. A lot of Italians are fed up of finger-wagging moralists from northern Europe telling them whom they should elect and, I suspect, vote Berlusconi almost as a declaration of independence. After centuries of being ruled by foreign powers – the papal states, the Habsburgs, the Bourbons and so on – they're determined that foreigners should keep out of their affairs. Especially the many affairs of their Prime Minister.
* Tobias Jones is the author of 'The Dark Heart of Italy'. His new book, 'The Salati Case', is published by Faber this week

sabato 27 giugno 2009

EVVIVA LA SEPARAZIONE DEI POTERI

Consulta, la cena segreta
di Peter Gomez
Un incontro carbonaro tra il premier, Alfano, Ghedini e due giudici della Corte Costituzionale. Per parlare di giustizia. Ma sullo sfondo c'è anche l'immunità di Berlusconi

Le auto con le scorte erano arrivate una dopo l'altra poco prima di cena. Silenziose, con i motori al minimo, avevano imboccato una tortuosa traversa di via Cortina d'Ampezzo a Roma dove, dopo aver percorso qualche tornante, si erano infilate nella ripida discesa che portava alla piazzola di sosta di un'elegante palazzina immersa nel verde. Era stato così che in una tiepida sera di maggio i vicini di casa del giudice della Corte costituzionale Luigi Mazzella, avevano potuto assistere al preludio di una delle più sconcertanti e politicamente imbarazzanti riunioni, organizzate dal governo Berlusconi. Un incontro privato tra il premier e due alti magistrati della Consulta, ovvero l'organismo che tra poche settimane dovrà finalmente decidere se bocciare o meno il Lodo Alfano: la legge che rende Silvio Berlusconi improcessabile fino alla fine del suo mandato.

Del resto che quello fosse un appuntamento particolare, gli inquilini della palazzina lo avevano capito da qualche giorno. Ilva, la moglie di Mazzella, aveva chiesto loro con anticipo di non posteggiare autovetture davanti ai garage. "Non stupitevi se vedrete delle body-guard e se ci sarà un po' di traffico, abbiamo ospiti importanti...", aveva detto la signora Mazzella alle amiche. Così, stando a quanto 'L'espresso' è in grado ricostruire, a casa del giudice si presentano Berlusconi, il ministro della Giustizia, Angiolino Alfano, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, e il presidente della commissione Affari costituzionali del Senato, Carlo Vizzini. Con loro arriva anche un altro collega di Mazzella, la toga Paolo Maria Napolitano, eletto alla Consulta nel 2006, dopo essere stato capo dell'ufficio del personale del Senato, capo gabinetto di Gianfranco Fini nel secondo governo Berlusconi e consigliere di Stato.
Più fonti concordano nel riferire che uno degli argomenti al centro della riunione è quello delle riforme costituzionali in materia di giustizia. Sul punto infatti Berlusconi e Mazzella la vedono allo stesso modo. Non per niente il giudice padrone di casa è stato, per scelta del Cavaliere, prima avvocato generale dello Stato e poi, nel 2003, ministro della Funzione pubblica, in sostituzione di Franco Frattini, volato a Bruxelles come commissario europeo. Infine l'elezione alla Consulta a coronamento di una carriera di successo, iniziata negli anni Ottanta, quando il giurista campano militava in un partito non certo tenero con i magistrati, come il Psi di Bettino Craxi (ma lui ricorda di aver mosso i primi passi al fianco dell'avversario di Craxi, Francesco De Martino), diventando quindi collaboratore e capo di gabinetto di vari ministri, tra cui il suo amico liberale Francesco De Lorenzo (all'epoca all'Ambiente), poi condannato e incarcerato per le mazzette incassate quando reggeva il dicastero della Sanità.

La cena dura a lungo. E a tenere banco è il presidente del Consiglio. Berlusconi sembra un fiume in piena e ripropone, tra l'altro, ai presenti una sua vecchia ossessione: quella di riuscire finalmente a riformare la giustizia abolendo di fatto i pubblici ministeri e trasformandoli in "avvocati dell'accusa".

L'idea, con Mazzella e Napolitano, sembra trovare un terreno particolarmente fertile. Il giudice padrone di casa non ha mai nascosto il suo pensiero su come dovrebbero funzionare i tribunali. Più volte Mazzella, come hanno in passato scritto i giornali, ha ipotizzato che la funzione di pm fosse svolta dall'avvocatura dello Stato. Solo che durante l'incontro carbonaro l'alto magistrato si trova a confrontarsi con uno che, in materia, è ancora più estremista di lui: il plurimputato e pluriprescritto presidente del Consiglio. E il risultato della discussione, a cui Vizzini, Alfano e Letta assistono in sostanziale silenzio, sta lì a dimostrarlo.

'L'espresso' ha infatti potuto leggere una bozza di riforma costituzionale consegnata a Palazzo Chigi un paio di giorni dopo il vertice. Una bozza che adesso circola nei palazzi del potere ed è anche arrivata negli uffici del Senato in attesa di essere trasformata in un articolato e discussa. Si tratta di quattro cartelle, preparate da uno dei due giudici, in cui viene anche rivisto il titolo quarto della carta fondamentale, quello che riguarda l'ordinamento della magistratura. Nove articoli che spazzano via una volta per tutte gli 'odiati' pubblici ministeri che dovrebbero essere sostituiti da funzionari reclutati anche tra gli avvocati e i professori universitari.
Per questo è previsto che nasca un nuovo Consiglio superiore della magistratura (Csm) aperto solo ai giudici, presieduto sempre dal presidente della Repubblica, ma nel quale entrerà di diritto il primo presidente della Corte di cassazione, escludendo invece il procuratore generale degli ermellini.

L'obiettivo è evidente. Impedire indagini sui potenti e sulla classe politica senza il placet, almeno indiretto, dell'esecutivo. Del resto il progetto di Berlusconi di incrementare l'influenza della politica in tutti i campi riguardanti direttamente o indirettamente la giustizia trova conferma anche in altri particolari. Per il premier va rivisto infatti pure il modo con cui vengono scelti i giudici della Corte costituzionale aumentando il peso del voto del parlamento. Anche la riforma della Consulta è un vecchio pallino di Mazzella.

Nei primissimi anni '90 il giurista, quando era capogabinetto del ministro delle Aree urbane Carmelo Conte, aveva tentato di sponsorizzare con un articolo pubblicato da 'L'Avanti' l'elezione a presidente della Corte dell'ex ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e aveva lanciato l'idea di modificare la Carta per affidare direttamente al capo dello Stato il compito di sceglierne in futuro il presidente.

Allora i giudici non l'avevano presa bene. Da una parte, il pur stimatissimo Vassali, era appena entrato a far parte della Consulta e se ne fosse diventato il numero uno per legge avrebbe ricoperto quell'incarico per nove anni. Dall'altra una modifica dell'articolo 138 della Costituzione avrebbe finito per far aumentare di troppo il peso del presidente della Repubblica che già nomina cinque giudici. Per questo era stato ricordato polemicamente proprio dagli alti magistrati che stabilire una continuità tra Quirinale e Consulta era pericoloso. Perché la Corte costituzionale è l'unico giudice sia dei reati commessi dal capo dello Stato (alto tradimento e attentato alla Costituzione), sia dei conflitti che possono sorgere tra i poteri dello Stato, presidenza della Repubblica compresa. Altri tempi. Un'altra Repubblica. E un'altra Corte costituzionale.

Oggi, negli anni dell'impero Berlusconi, un imputato che fonda buona parte del proprio futuro politico sulle decisioni della Corte, che dovrà pronunciarsi sul Lodo Alfano, può persino trovare due dei suoi componenti disposti a discutere segretamente a cena con lui delle fondamenta dello Stato. E lo fa sapendo che non gli può accadere nulla. Al contrario di quelli dei tribunali, le toghe della Consulta, non possono ovviamente essere ricusate. E dalla loro decisione passerà la possibilità o meno di giudicare il premier nei processi presenti e futuri. A partire dal caso Mills e dal procedimento per i fondi neri Mediaset.

venerdì 26 giugno 2009

On Liberty




«Se tutti gli uomini, meno uno, avessero la stessa opinione, non avrebbero diritto di far tacere quell'unico individuo più di quanto ne avrebbe lui di far tacere, avendone il potere, l'intera umanità.»

John Stuart Mill

BLOB/SFOGO



e ancora...



e ancora...



e ancora...



e ancora...



e ancora...




E ANCORA NON VI BASTA???

martedì 16 giugno 2009

Caso Welby: prime condanne per diffamazione

Radicali: caso Welby, prime condanne per diffamazione nei confronti di Belpietro e Stefano Lorenzetto (Il Giornale) e Militia Christi. La sen. Binetti, invece, si trincera dietro l’immunità parlamentare.

Autore:
Dichiarazione di Maurizio Turco, deputato radicale del PD e Marco Cappato, Segretario dell’Associazione Coscioni.
Iniziano a giungere le prime condanne per diffamazione sul caso Welby, che, come il caso Englaro, ha visto scendere in campo una portentosa opera di disinformazione e manipolazione della verità a danno, anzitutto, dei cittadini che vengono ritenuti ‘popolo bue’ al quale dare a credere qualsiasi ciarpame pur di evitare che si formi una coscienza collettiva, basata sulla conoscenza, su temi quali il fine vita.

E così l’opera volta a ristabilire la verità ed a restituire l’onore e la reputazione ai diffamati deve giungere attraverso i Tribunali Italiani. E’ recente, difatti, la condanna per il reato di diffamazione inflitta in sede penale, in primo grado, dal Tribunale di Desio, Sezione distaccata del Tribunale di Monza, a Maurizio Belpietro, 800,00 Euro di multa – all’epoca direttore de Il Giornale – ed al giornalista Stefano Lorenzetto, 1.200,00 Euro di Multa. Diffamato il dott. Mario Riccio, difeso dall’avv. Giuseppe Rossodivita, al quale il Tribunale ha riconosciuto tra risarcimento e riparazione pecuniaria la somma di 53.000,00 Euro, oltre la riparazione specifica della pubblicazione della sentenza su Il Giornale.

L’articolo, pubblicato in prima pagina il 23.12.2006, titolava in riferimento a Piergiorgio Welby “Nessun rispetto nemmeno per la sua volontà” ed ‘illuminava’ i lettori su come “il dr. Mario Riccio, il medico venuto da Cremona”, che ha adottato il metodo “dei boia aguzzini che eseguono le sentenze capitali negli USA”, se ne fosse “fregato della volontà di Welby.” Ricorda il Tribunale che la critica per essere socialmente utile e dunque legittima, anche quando lesiva della reputazione di terzi, deve avere come presupposto dei fatti veri; in caso contrario è un mero pretesto per diffamare. Ed è di oggi, ancora, la sentenza del Tribunale Civile di Roma, resa in primo grado, con la quale il Movimento Politico Cattolico Militia Christi, è stato condannato con sentenza immediatamente esecutiva a risarcire la somma totale di 60.000 Euro, pari a 20.000,00 Euro ciascuno, a favore dell’Associazione per la Libertà della ricerca scientifica Luca Coscioni, dell’Associazione La Rosa nel Pugno e del dr. Mario Riccio, tutti difesi dall’Avv. Giuseppe Rossodivita.

Il Tribunale ha anche ordinato la definitiva rimozione dal sito internet dell’Associazione Cattolica del comunicato stampa dal titolo “Profanatori ed assassini”. La senatrice Binetti, anch’ella convenuta in giudizio dal dr. Mario Riccio, dall’Associazione Coscioni e da Radicali Italiani, davanti al Tribunale di Roma, come anche per altra diversa causa l’on. Luca Volontè convenuto in giudizio da Marco Pannella, Emma Bonino e Marco Cappato, si sono invece trincerati dietro l’immunità parlamentare e l’insindacabilità delle opinioni espresse da parlamentari attraverso i giornali ed i comunicati. Parlano, scrivono comunicati, rilasciano interviste, ma poi non ci pensano neppure – o forse ci pensano sin troppo bene - a difendere le loro affermazioni in Tribunale.

giovedì 11 giugno 2009

PROPRIO UN BEL PARTITO L'UDC

Gli altri 3 senatori coinvolti sono Cintola, Romano e Cuffaro
L'inchiesta partita dalle dichiarazioni del figlio del boss, Massimo
Palermo, indagini su Ciancimino
Vizzini lascia l'Antimafia
Il parlamentare Pdl: "Convinto di poter dimostrare la mia estraneità"
Dal partito reazioni contrastanti. Gasparri: "Deve restare". Malan: "E' stato corretto"


PALERMO - Carlo Vizzini (Pdl, presidente della commissione Affari Costituzionali), Salvatore Cintola, Saverio Romano e Salvatore Cuffaro, tutti dell'Udc. Sono questi 4 i senatori siciliani indagati dalla Procura di Palermo per "concorso in corruzione", aggravata dall'accusa di aver favorito l'associazione mafiosa che faceva capo a Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per mafia e morto nel 2002. Vizzini si è subito dimesso dalla commissione parlamentare antimafia di cui faceva parte.

Le dichiarazioni del figlio. La Procura indaga da anni sul "tesoro" di "don Vito" ma quest'ultima inchiesta è partita dalle recenti dichiarazioni del figlio dell'ex sindaco, Massimo, già condannato in primo grado a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio dei soldi del padre. Massimo aveva parlato di "personaggi ben più importanti di lui" coinvolti nella gestione del patrimonio paterno, alludendo anche ad alcuni uomini politici, e si era autodefinito "capro espiatorio" nella vicenda.

I 4 senatori dovranno spiegare ai pm a che titolo avrebbero intascato i soldi provenienti dal conto "Mignon" dove Vito Ciancimino nascondeva le sue provviste. Soldi prelevati dal figlio Massimo per conto di Gianni Lapis, il tributarista accusato di aver gestito il tesoro dell'ex sindaco di Palermo. Insieme all'avviso di garanzia, i quattro parlamentari hanno ricevuto un avviso a comparire in Procura il prossimo 17 giugno.Vizzini lascia l'antimafia. Scosso dopo aver appreso la notizia delle indagini a suo carico, Carlo Vizzini ha annunciato di essersi dimesso dalla commissione parlamentare antimafia. "Ho la serenità di chi sa di essere estraneo ad ipotesi di reato e di potere compiutamente rispondere ai magistrati - ha detto il senatore - adesso si potrà fare luce sulle verità, mettendo fine al lungo e spesso velenoso chiacchiericcio che negli ultimi mesi mi ha accompagnato".

Le ragioni delle dimissioni. "Ho già detto e non ripeto quali sono stati i miei rapporti e quali le persone mai conosciute - osserva Vizzini - anche presentando formale denuncia. Vivo, tuttavia, l'amarezza di trovarmi in questa condizione dopo avere contrastato con forza la mafia, i mafiosi e i comitati d'affari. Ma proprio per questo devo essere rigoroso e coerente con me stesso, e dunque ho immediatamente rassegnato le mie dimissioni dalla commissione parlamentare antimafia, riservandomi di assumere altre decisioni dopo che avrò sentito i magistrati".

"Voglio essere tutelato dall'infamia". Vizzini ha infine concluso:"Ho sempre messo nel conto che la lotta alla mafia avrebbe scatenato risentimenti gravi di cui ho avuto percezione anche di recente, ma sono certo che c'è una sede nella quale si può essere tutelati dalla infamia e a questa adesso mi affido". Uno degli altri indagati, il segretario generale dell'Udc siciliana, Saverio Romano ha dichiarato: "Sono sereno perché non ho mai avuto nulla a che fare con Ciancimino, né ho mai avuto rapporti con la società di cui oggi ho appreso che Ciancimino fosse socio".

Le reazioni. Il Pdl ha fatto quadrato attorno al suo esponente, difendendo Vizzini ed esprimendogli solidarietà, anche in modo contradditorio. Il senatore Lucio Malan ha sottolineato la "correttezza di Vizzini", che si è subito dimesso dalla posizione occupata fino a quel momento. Sicuro dell'estraneità di Vizzini alla vicenda si è detto anche l'attuale sindaco di Palermo Diego Cammarata: "Sono certo che il senatore, che si è sempre battuto con coraggio e determinazione contro la mafia e il malaffare, saprà chiarire la propria posizione". Per il presidente del gruppo Pdl al Senato Maurizio Gasparri, Vizzini dovrebbe comunque "continuare il suo impegno nella commissione antimafia perché dimostrerà rapidamente e facilmente la sua estraneità ad ogni accusa".

mercoledì 10 giugno 2009

LA LEGGE DEL BAVAGLIO

L'agenda delle priorità di Silvio Berlusconi continua ad essere ad personam. Quindi, che la ricreazione continui, con buona pace di Emma Marcegaglia. Sostegno alle imprese e a chi perde il lavoro? Possono attendere. Per la bisogna sono sufficienti, al premier, un paio di bubbole nel tempio di cartapesta di Porta a porta (4 giugno): "Oggi non c'è nessuno che perdendo il lavoro non venga aiutato dallo Stato. C'è la cassa integrazione per i precari, così come per i lavoratori a progetto".

Il Cavaliere diventa meno fantasioso quando si muove nel suo interesse. Teme le intercettazioni (non si sa mai, con quel che combina al telefono) e paventa le cronache come il diavolo l'acqua santa. Si muove con molta concretezza, in questi casi. Prima notizia post-elettorale, dunque: il governo impone la fiducia alla Camera e oggi sarà legge il disegno che diminuisce l'efficacia delle investigazioni, cancella il dovere della cronaca, distrugge il diritto del cittadino di essere informato. Con buona pace (anche qui) della sicurezza dei cittadini di un Paese che forma il 10 per cento del prodotto interno lordo nelle pieghe del crimine, le investigazioni ne usciranno assottigliate, impoverite.

L'ascolto telefonico, ambientale, telematico da mezzo di ricerca della prova si trasforma in strumento di completamento e rafforzamento di una prova già acquisita. Un optional, per capirci. Un rosario di adempimenti, motivazioni, decisioni collegiali e nuovi carichi di lavoro diventeranno sabbia in un motore già arrugginito avvicinando la machina iustitiae al limite di saturazione che decreta l'impossibilità di celebrare il processo, un processo (appare sempre di più questo il cinico obiettivo "riformatore" del governo). Ancora. Soffocare in sessanta giorni il limite temporale degli ascolti (un'ulteriore stretta: si era parlato di tre mesi) "vanifica gli sforzi investigativi delle forze dell'ordine e degli uffici di procura", come inutilmente ha avvertito il Consiglio superiore della magistratura.


Sistemata in questo modo l'attività d'indagine, il lavoro non poteva dirsi finito se anche l'informazione, il diritto/dovere di cronaca, non avesse pagato il suo prezzo. Con un tratto di penna la nuova legge estende il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto anche agli atti non più coperti dal segreto "fino alla conclusioni delle indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare". Prima di questo limite "sarà vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, della documentazione e degli atti delle conversazioni telefoniche anche se non più coperti dal segreto".

Si potrà dire che si indaga su una clinica privata abitata da medici ossessionati dal denaro che operano i pazienti anche se non è necessario. Non si potrà dire qual è quell'inferno dei vivi e quanti e quali pasticci hanno organizzato accordandosi al telefono. Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali della giustizia italiana dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.

Addio al giornalismo come servizio al lettore e all'opinione pubblica. Addio alle cronache che consentono di osservare da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. È vero, in alcuni casi l'ostinazione a raccontare le opacità del potere ha convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, in fondo, perché la libertà di stampa è nata nell'interesse dei governati e non dei governanti e quindi non c'è nessuna ragione decorosa per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - ricordate un governatore della Banca d'Italia? - come un'autorità di vigilanza protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.

Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. I cronisti che violeranno la consegna del silenzio saranno sospesi per tre mesi dall'Ordine dei giornalisti (sarà questa la vera punizione) e subiranno una condanna penale da sei mesi a tre anni di carcere (che potrà trasformarsi in sanzione pecuniaria, però). Ma non è questo che conta davvero, mi pare. Che volete che sia una multa, se si è fatto un lavoro decente?

La trovata del governo che cambia radicalmente le regole del gioco è un'altra. È la punizione economica inflitta all'editore che, per ogni "omesso controllo", potrà subire una sanzione pecuniaria (incarognita nell'ultimo testo) da 64.500 a 465mila euro. Come dire che a chi non tiene la bocca cucita su quel che sa - e che i lettori dovrebbero sapere - costerà milioni di euro all'anno la violazione della "consegna del silenzio", cifre ragguardevoli e, in molti casi, insostenibili per un settore che non è in buona salute.

L'innovazione legislativa - l'abbiamo già scritto - sposta in modo subdolo e decisivo la linea del conflitto. Era esterna e impegnava alla luce del sole la redazione, l'autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, le redazioni e le proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L'editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si portano così le proprietà a intervenire direttamente nei contenuti del lavoro redazionale. Le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi della materia informativa vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo, nel progetto inviato al Parlamento, pretende addirittura che l'editore debba adottare "misure idonee a favorire lo svolgimento dell'attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio". È evidente che solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell'attività giornalistica è possibile "scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio". Di fatto, l'editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela.

Ecco dunque i frutti intossicati della legge che oggi sarà approvata, senza alcuna discussione, a Montecitorio: la magistratura avrà meno strumenti per proteggere il Paese dal crimine e gli individui dall'insicurezza quotidiana; si castigano i giornalisti che non tengono il becco chiuso anche se sanno come vanno le cose; si punisce l'editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi - cari lettori - non conoscerete più (se non a babbo morto) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che decidono delle vostre stesse vite. Sono le nuove regole di una "ricreazione" che non finisce mai.

di Giuseppe d'Avanzo

"PACCHETTO INSICUREZZA"

Ecco il parere della Sesta commissione, pronto a essere sottoposto al plenum
Secondo i giudici le nuove norme non aiuteranno nemmeno afrenare gli arrivi illegali
Il Csm sul pacchetto sicurezza
"Paralizzerà gli uffici giudiziari"
I magistrati: il provvedimento viola anche i diritti dei clandestini e dei loro figli


ROMA - Comporterà la "totale paralisi" di "molti degli uffici giudiziari" l'introduzione del reato di clandestinità. Ad avvertire delle "pesanti ripercussioni negative" che la novità avrà è la Sesta commissione del Csm, nel parere al pacchetto sicurezza approvato all'unanimità, e che sarà discusso oggi pomeriggio dal plenum. Secondo i consiglieri, la nuova norma "non appare idonea a conseguire l'intento di evitare nel nostro Paese la circolazione di stranieri entrati irregolarmente". E lede anche i diritti dei clandestini e dei loro figli, ad esempio quando viene chiesta per la dichiarazione di nascita l'esibizione del permesso di soggiorno da parte del genitore.

In particolare, sottolinea il Csm, le conseguenze peggiori, sul fronte del rallentamento della giudizia, si avranno per i giudici di pace: saranno "gravati da centinaia di migliaia di nuovi processi, tali da determinare la paralisi di molti uffici". Ma problemi si avranno anche per gli "uffici giudiziari ordinari ,impegnati nel processo in primo grado e nelle fasi di impugnazione successive". Il tutto peraltro senza che la norma serva al suo stesso scopo, quello di favorire l'allontanamento dei clandestini. I consiglieri infatti dubitano espressamente del suo "effetto deterrente": "Una contravvenzione punita con pena pecuniaria non appare prevedibilmente efficace per chi è spinto a emigrare da condizioni disperate; senza dire che "già la normativa vigente consente alle autorità amministrative competenti di disporre l'immediata espulsione dei clandestini"; uno strumento su cui pesano "non già carenze normative ma difficoltà di carattere amministrativo e organizzativo".


Ma non sarà solo il reato di clandestinità a pesare sugli uffici giudiziari: anche le diverse norme del pacchetto che prevedono inasprimenti sanzionatori o nuovi reati e su cui il giudizio di merito "è positivo", avranno l'effetto di produrre "un ulteriore carico per il sistema penale, già particolarmente gravato e in evidente crisi di effettività" e per le carceri, "ormai allo stremo, avendo superato le 62mila presenze giornaliere".

E poi c'è il problema della lesione dei diritti dei clandestini e dei loro figli operata da alcune delle norme del pacchetto sicurezza, come quella che richiede per la dichiarazione di nascita l'esibizione del permesso di soggiorno da parte del genitore. Norma che secondo i giudici è in contrasto con "il diritto della persona minore di età alla propria identità personale e alla cittadinanza da riconoscersi immediatamente al momento della sua nascita" previsto dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, "determinando una iniqua condizione del figlio di genitori stranieri non regolari nel nostro territorio". Con la conseguenza che il neonato non solo "verrebbe privato della propria identità ma potrebbe essere più facilmente esposto ad azioni volte a falsi riconoscimenti da parte di terzi, per fini illeciti e in violazione della legge sull'adozione".

Inevitabile, continua il Csm, poi, l'incidenza negativa del nuovo reato in tema di accesso a servizi pubblici essenziali relativi a beni fondamentali tutelati dalla Costituzione - il diritto alla salute, ad esempio - da parte degli immigrati non dotati, o non più dotati, di un valido titolo di soggiorno.

I relatori del testo sono Antonio Patrono (Magistratura Indipendente), Mauro Volpi (laico del centrosinistra) e Livio Pepino (Magistratura democratica).

sabato 6 giugno 2009

OFFICINA INFORMA...

martedì 9 giugno alle 17.30 presso la Casa delle Donne (via Terranuova, 12/b Ferrara).

Tamar Pitch (sociologa e filosofa del diritto, Università di Perugia)

e

Giuditta Creazzo (Casa delle donne per non subire violenza di Bologna),

discuteranno di "Ginocidio. La violenza maschile contro le donne", numero monografico della rivista "Studi sulla questione criminale", n. 2/2008.

L'iniziativa è promossa da UDI - Centro Documentazione Donna - Centro Donna Giustizia, con l'adesione delle associazioni Officina - Arcilesbica - Pachamama.